Lo sport è l'universo degli eroi.

Per i tantissimi amanti dello sport (al di fuori del wrestling e del calcio!) che vogliono parlare e discutere di motori, tennis, sci, golf e tutti gli altri sport!
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THEREALUNDERTAKER
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Lo sport è l'universo degli eroi.

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Se dovessi ragionare sui motivi per cui seguiamo o svolgiamo, sia a livello dilettantistico che agonistico, una qualsivoglia attività sportiva, beh, quasi sicuramente le risposte sarebbero
“La competizione con gli amici\avversari: dimostrare di essere il migliore”
“Mettere alla prova me stesso per superare i miei limiti”
“Sia mai che qualcuno mi nota, divento famoso”
“Oh, lo sportivo cucca e tromba”
Niente di male, ci mancherebbe. Analizzando la situazione in sé, per essere sportivi devi avere una forte motivazione, perchè è faticoso: Allenamenti, spesa economica, minima o no, per le attrezzature\corsi\palestra da seguire, tempo da dedicarci, analisi sulla salute, possibilità di infortunio, regime alimentare, team working, raggiungimento degli obiettivi, strategie intellettuali, psicologia e chissà quant altro.
Un mondo nel mondo.
Lo sportivo, specie quello ad altissimo livello, diventa simbolo di status sociale, di figura di riferimento, le moderne leggende, che per quanto mi riguarda è un termine fin troppo abusato. La dimensione dello sport è diventata quella metafora della nostra vita quotidiana, tant è che ormai il gergo sportivo e mischiato alle situazioni quotidiane: se penso al calcio ed al termine fuorigioco (o al baseball il termine OUT) posso indicare tranquillamente persone messe da parte nella società, licenziate, scaricate dalla propria fidanzata o fidanzato, per dirne una. “Sei andato oltre la linea” quando in pratica si vuole far sapere ad una persona di averci fatto perdere la pazienza o “fuori tempo massimo” per dire che la situazione è diventata irrecuperabile.

CI fa socializzare, ci mette in discussione, ci migliora, ci fa scontrare. Ci permette un mucchio di cose.
È un Arte, ovvero una forma espressiva umana che esalta e risalta l'uomo in tutto e per tutto, riconoscibile ed utilizzabile socialmente.

É un'arte che, idealizzandola, crea conflitto, scontri, ma anche epica, eroicità, phatos.
Un'atleta che espone il suo corpo alle intemperie della natura per poter spingere dei pedali per far circolare più velocemente la catena del suo mezzo di locomozione o la capacità di schiacciare un acceleratore sapendo variare la curva col volante come neanche un colpo di pennello su una tela di un pittore mezzo pazzo, un pugno ben assestato con un guantone sulla mandibola del malcapitato su un quadrato con una folla urlante e trepidante, una figura ginnica per rimanere in equilibrio su un asse di legno e cosi' via. Sembrano azioni che durano eternità, eppure son gesti quasi immediati, veloci, che riusciamo a catturare grazie ad una foto o videocamera.
Azioni veloci, che se comunicano qualcosa allo spettatore, diventano davvero eterni.
Nell'eternità che voglio descrivere oggi, ci sono cinque minuti. 5 minuti e 44 secondi

Los Angeles, 1984. Olimpiadi. Seconda parte delle Olimpiadi della guerra fredda. Oh si, perchè quattro anni prima, citando Dante Alighieri, ci fu il gran rifiuto: Gli Stati Uniti rifiutarono di partecipare alle Olimpiadi in Russia; Per risposta, quattro anni dopo furono gli stati della Cortina di Ferro a rifiutarsi di andare in America. Non propriamente spirito olimpico, da parte dei due colossi. Le Olimpiadi moderne sono solo uno sbiadito ricordo del concetto con cui gli antichi Greci le svolgevano. Erano diventate teatro di guerra, (Vedi l'attentato di Monaco), scontro razziale (i pugni alzati), scontri geopolitici (la guerra fredda appunto), un luogo di manifestazione di interessi.
Non si poteva certo definire sport, una cosa del genere, ovvero manifestazione ideale e leale della rappresentanza delle proprie capacità e del superamento dei propri limiti: il tentativo di abbattere i records. Era un agone politico. Lo spettacolo doveva andare avanti e cosi' fu, anche a dimostrazione che “i cattivi erano gli altri”. SI organizzarono le cose in grande. Sfarzo, fin dall'accoglienza, fin dall'arrivo della fiaccola; la partecipazione, la cerimonia, la copertura mediatica, all'epoca eccezionale: le prime vere grandi olimpiadi main stream... e la parità: le grandi occasioni per le donne.

Il comitato Olimpico, infatti, molto molto riottoso al suo interno, convenne che i tempi erano maturi per dare alle donne l'opportunità di mettersi in gioco in attività sportive mai, fino a quel momento, espresse alle Olimpiadi: simbolo di questa emancipazione... la prima maratona femminile. Il movimento negli anni precedenti si era dato da fare. Nel 1960 Julia Chase Brand si è dovuta letteralmente nascondere per partecipare alla Manchester Road Race: le donne non potevano correre per più di un km perchè, motivazione, altrimenti l'utero sarebbe uscito dalla vagina. Ci mette 33 minuti, arriva davanti a 10 uomini.
Bobbi Gibb, si travesti' da uomo per partecipare alla maratona di Boston 1966. Tre ore e 22 minuti quasi, incoraggiata da alcuni uomini, osteggiata dagli organizzatori.
Katrine Switzer, la famosa 261 della maratona di Boston del 1967, in diretta fotografica gli organizzatori cercarono di strattonarla per farla uscire. Si creò un movimento di opinione tale che la maratona di New York, la più famosa maratona al mondo dopo quella olimpica, apri' le sue porte alle donne nel 1972.

Le olimpiadi quindi certificarono ufficialmente che le donne avevano pari diritti di esprimersi nello sport. Maratona femminile anche per loro. Ritrosi, in un mondo ancora maschilista come quello occidentale, dove le donne manager erano inesistenti, dove la Tatcher, donna politica, veniva considerato un transessuale, una lady di ferro dalle sembianze maschili. Ma il mondo andava oltre questa ritrosia: eh si, lo sport è la bandiera delle uguaglianze, la bandiera dell'emancipazione, dei popoli, delle persone, dei sessi.
Era il 5 agosto, il giorno della maratona femminile. 42 km e 195 metri. Caldo umido, di circa 22 gradi già alle 8 di mattino, una temperatura che ti avrebbe fatto scambiare una bava di ragno per un oasi di acqua fresca.
La norvegese Waitze era la netta favorita, nonostante un infortunio muscolare di qualche giorno addietro. 50 donne. 50 donne pronte a fare la storia. Gli sguardi alla partenza erano fin troppo tesi. Portoghesi, norvegesi, svizzere, americane, italiane.
Ognuna di loro sentiva il peso leggendario di quanto dovevano portare avanti con i loro passi cadenzati, con le loro strategie. Vincere. Sicuramente, una molla in più. Ma la vera vittoria non era arrivare prime. La vera vittoria era arrivare. Fino in fondo. Alle olimpiadi. LA MARATONA per antonomasia. Senza aiuti, senza vantaggi. Due tette, un pantaloncino succinto, un cappellino, un paio di scarpe... e l'asfalto. Quello duro, quello bollente, quello che i raggi del sole accarezzavano col proprio calore. Ovviamente più si andava avanti, più la temperatura percepita ti avrebbe fatto schiumare il cervello, trasformandolo in un acidula gelatina.

Dopo un inizio prudente, a quasi 30 km dall'arrivo l'americana Benoit prova la fuga da lontano: Le altre non la seguono, vanno di proprio ritmo, compreso la Waitze. Sarà la fuga fatale, che porterà l'americana a battere la favorita rivale, arrivando davanti con una distanza di 400 metri di vantaggio. Terza la Mota. La migliore delle italiane arriva nona, ci metterà meno di 2 ore e 30. Un trionfo anche per lei.

Il podio viene preparato. C'è da festeggiare. 100 mila sugli spalti urlanti a cantare l'inno americano per la propria beniamina. Tutto è pronto. La Grandezza americana è li, festante, dinanzi al mondo intero a farsi mostrare, lanciando al cielo il canto di giubilo, il proprio orgoglio, di essere nati nella terra delle opportunità.

Tutto è pronto, ma manca ancora qualcuno. E quel qualcuno arriva. Entra. Allo stadio. 29 minuti dopo l'arrivo della Benoit. Ma non era finito? Fa caldo. 32 gradi, percepiti anche di più. C'è gente. Ci sono le lamiere dello stadio che scottano come lava eruttata, il sole picchia forte peggio di un pugile. Le mani mulinano ventagli.
Ne erano arrivate 36, su 50. Ne arriveranno 44.
Ecco la 37esima che varca lo stadio.
Il numero 323.
La svizzera.
Gabriela. Andersen.
O meglio.
Quella che ne rimaneva.
Il fantasma.



Un cappellino bianco, con canotta rossa sbiadita, dove unico segno di riconoscimento era la pettorina col numero 323 e la croce bianca sul seno sinistro, che si percepisce appena.
La figura è tutta contorta, storta, piegata, sbanda, sbuffa, suda quel poco di liquido che le rimane. Barcolla, come un ubriaco vicino al coma etlico. Il sole batte forte, e concentra tutti i suoi raggi su quella carcassa scoordinata e triste. Sbuffa, Gabriela. Arranca, si piega, ma non genuflette.

Entra nello stadio.. cosi'. In sordina. Non se ne rende conto. Cammina, biascica; è slabbrata. Un giro e mezzo. Da quel momento.
Il silenzio.
Il pubblico è attonito. Inebetito. Segue quei passi, o meglio, quel cadavere semivestito da una pettorina numero. L'odissea di Ulisse concentrata in quei 600 metri finali, in quel giro e mezzo.
Altro che grandezza americana. Una vittoria dinanzi a questa situazione perde ogni genere di interesse.

Una camminata abulica, eterea, inumana. Un calvario, un collasso continuo, per gli occhi. Due passi e sembra quasi cadere a sinistra. Il pubblico con le mani prova idealmente a spostarla a destra. Il corpo va a destra e pende. Un piede sbilenco quasi manca la pista; le gambe non sentono il terreno: il pubblico si alza in piedi. Sbuffa, soffia, applaude. Ogni colpo di mano, un ritmo per le gambe, un segnale di direzione, un invito a non mollare. Un giudice, al bordo della pista, la segue; dapprima con lo sguardo, poi con i suoi passi. Le si avvicina. Non la tocca. Ancora. Le chiede se può darle aiuto.
Gabriella sbilenca ancora. Non lo guarda neanche. Non ha praticamente fiato, le forze palesemente sono assenti; a muoverla è solo la meccanica. Sbanda di qua, di la, le mani vanno sulla testa; dice di no. Non vuole essere aiutata. Ansima, chiude gli occhi, ma prosegue e va avanti. I giudici diventano due, poi tre. Sono li, la accompagnano, con lo sguardo, pronti ad intervenire appena possibile. Gabriella muove le mani, calpesta con i suoi piedi ciondolanti e scoordinati una pista fatta con la colla, come se non volesse lasciarla andare. Ogni passo una fitta, ogni piegatura di ginocchio un supplizio, ogni goccia persa di sudore un colpo alla salute. Fino all'arrivo. Stremato. PEr tutti. Per lei, per il fiato sospeso del pubblico, per la preoccupazione dei giudici, per la diretta mondiale, per la critica, pèr coloro che non capiscono. Interminabili, incredibili, afflittivi 600 metri.


5 minuti e 44 secondi. 5 minuti e 44 secondi da scandire applauso dopo applauso, soffio dopo soffio da parte del pubblico. 5 minuti e 44 secondi per portare in fondo il tuo impegno, personale, di poter dire: ce l ho fatta. Ho vinto. Non una medaglia ma un posto nell'Olimpo degli eroi, che non sono quelli che arrivano primi, ma quelli che si fanno ricordare per gesti che vanno al di là del riconoscimento pratico: un invito a non mollare, per persone normali, un esempio da imitare e se non da imitare da tenere a mente perchè ognuno di noi, nella vita di tutti giorni, vive la sua maratona arrivando alla fine priva di energia, ma con la soddisfazione di essere giunti fino in fondo. Questa, la vera grandezza dello sport.

Sono tutti quelli come Gabriella Andersen. E ce ne sono tanti. Alcuni vincenti, altri no. Ma in comune, hanno la capacità di essere portati come esempio positivo in cui ogni essere umano può riconoscersi.





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lando
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Re: Lo sport è l'universo degli eroi.

Messaggio da lando »

Bellissima storia che non conoscevo.

Grazie. :beer:

Loscrauso
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Re: Lo sport è l'universo degli eroi.

Messaggio da Loscrauso »

io rispondo sempre

"Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi"

noi siamo veramente messi male se dobbiamo etichettare tutti come "eroi"

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