La morte di George Foreman è un colpo al cuore per qualsiasi appassionato
Da giovane è stato lo sparring partner di fiducia del fortissimo (e “cattivissimo”) Sonny Liston, scelto appositamente perché uno dei pochi che riusciva a reggere i pesantissimi pugni del “pugile della malavita” (pure Liston meriterebbe un approfondimento a parte).
Diventato campione olimpico in quel di Messico ‘68, l’anno dopo passa ai professionisti e inizia dominare la scena.
Considerato un pugile granitico, un picchiatore dalla tecnica molto limitata (“scarsa” per i suoi detrattori) ma dalla potenza dei colpi inarrestabili, nel giro di 4 anni macina vittorie (tra cui un impressionante TKO contro il “mento migliore di tutti i tempi”, George Chuvalo), e arriva a sfidare il temutissimo e imbattuto campione Smokin’ Joe Frazier, reduce da una recente e convincente vittoria contro Alì.
L’incontro è senza storia: 6 atterramenti in due round costringono Joe al ritiro e cementificano il nuovo campione come uno dei grandi della disciplina.
L’anno successivo, é la volta del match della vita di Foreman, il famosissimo “Rumble in the Jungle” contro Alí, organizzato simbolicamente (con i soliti magheggi e mosse di marketing del sempreverde Don King) a Kinshasa, nello Zaire.
Alí parte nettamente sfavorito, ma nel corso dei mesi mette in atto tutte le sue armi di guerra psicologica, insultando il campione, mettendone in dubbio l’abilità e presentandosi ai suoi allenamenti per metterlo a disagio.
Foreman, dal canto suo, ha una personalità abbastanza riservata e non avvezzo a tali scontri psicologici, subendo molto l’atmosfera e la pressione di quei mesi (coadiuvati dalla location del match, visto che a Kinshasa la popolazione locale si schiera quasi totalmente con lo sfidante).
Il giorno del match, di fronte a 60k persone che urlano “Boma Ye” (uccidilo) per Alì e il pubblico televisivo live più grande di sempre, Foreman vive forse la peggiore serata della sua vita. Nonostante attacchi con tutta la sua forza come al solito, Alí riesce a mandare a vuoto la maggior parte dei suoi attaccanti sfruttando l’elasticità delle corde e la propria velocità (é il famoso rope-a-dope), facendolo stancare.
Nell’ottavo round, la controffensiva fulminea e spietata di Alí costringe uno stremato Foreman al tappeto e poi alla resa per la prima volta nella sua carriera, per un risultato inaspettato nel delirio del pubblico.
Se la notte di Kinshasa e la riconquista del titolo contro un avversario appartenente imbattibile contribuiscono al racconto di Alí come GOAT, per Foreman si tratta invece di una ferita che rimarrà aperta per anni e dell’inizio di una spirale negativa.
Poco dopo l’incontro, Big George grida al complotto, paventando di essere stato “avvelenato” e che le corde fossero state eccessivamente allentate per permettere ad Alí di schivare i suoi colpi, non accettando la sconfitta.
Inizia un periodo di depressione segnato anche da gravi eventi personali (la scoperta che i genitori scommisero contro di lui, e di avere un altro padre), che lo portano ad impiegare il 75 senza avere match e rifugiandosi nel sesso e nella bella vita.
L’anno dopo ritorna sul ring conteo Ron Lyle, un picchiatore con uno stile molto simile al suo che lo costringe a uno scontro a viso aperto senza esclusione di colpi.
Ne consegue probabilmente il miglior slugfest della storia della boxe, pieno di atterramenti da entrambi i lati e di tensione al cardiopalma, ma che si conclude con il ko al 5 round per l’ex campione.
Guardatevelo.
Nonostante un’altra vittoria con Frazier, George non é più lo stesso e finisce per essere sconfitto da un poco quotato Jimmy Young per decisione unanime, subendo pure un kockdown.
Alla fine del match, si dice che abbia avuto un colpo di calore nello spogliatoio, da cui racconta di aver avuto una visione di Dio.
Per Foreman, questa è la svolta della sua vita: si ritira dal pugilato e inizia una vita religiosa, dandosi al volontariato e alle opere di bene e rimettendo a posto i cocci della sua vita.
… fino al 1987, quando lo spirito guerriero (e alcun problemi economici) lo spingono a un clamoroso ritorno all’età di 38 anni (!).
Foreman dichiara addirittura di voler tornare campione, ma a tutti pare un’impresa francamente impossibile.
D’altro canto però, Old George appare come un pugile un po’ diverso dal passato. I pugni d’acciaio e il mento granitico sono quelli di un tempo (non verrà mai atterrato nel suo secondo stint), ma ora appare anche più maturo e strategico, capace di analizzare la situazione e difendersi da avversari più giovani e rampanti.
Inizia con avversari di poco conto, ma col tempo inizia ad affrontare anche pugili quotati come Gerry Cooney (il ko di questo match mi fa sbragare):
Con gli anni arrivano le occasioni titolate contro Tommy Morrison e Evander Holyfield, che si concludono con una sconfitta nonostante le ottime prestazioni.
Nel 1994, viene scelto da Michael Moorer per la difesa dei titoli WBA e IBF, probabilmente convinto di poter gestire il vecchio pugile. E in effetti il match viene più dominato da Moorer, ma alla decima ripresa avviene l’incredibile: Foreman penetra la difesa avversaria con un uno-due compatto che manda Moorer al conteggio.
Foreman ridiventa campione del mondo alla soglia dei 46 anni, compiendo un’impresa che rimarrà insuperata per moltissimi anni nella storia della boxe.
Continuerà a combattere fino al 1997, anno della sua sconfitta (dubbia) contro il quotato Shannon Briggs.
Oggi se ne va uno dei più grandi della disciplina, che ci lascia in ricordo una (due?) carriera indimenticabile e irripetibile.
Che la terra ti sia lieve, campione.