18/52 e 19/52.
Oggi baro, portando due libri assieme. Sono entrambi brevi, ma densissimi di concetti. Hanno entrambi rivoluzionato il nostro modo di comprendere la realtà e la mente. Sono stati scritti da due dei più grandi geni del secolo scorso, e forse di qualsiasi altro tempo. Soprattutto, sono strettamente legati
Tra gli anni ‘30 e ’50 il matematico inglese Alan Turing rivoluziona completamente il modo di concepire l’automazione e dà vita alla moderna scienza dei calcolatori. Secondo Turing, il cui pensiero è condensato in questa raccolta di saggi, il processo di calcolo può essere visto come un’attività algoritmica, ossia un programma che, dato un insieme finito di istruzioni chiare e non ambigue, è in grado di risolvere un problema in un numero limitato di passi discreti. Nei primi saggi vengono esposte le idee fondamentali sul funzionamento logico di un calcolatore, mentre gli ultimi due (un pochino meno ostici e probabilmente più interessanti per noi) si pongono il problema dell'intelligenza e del pensiero delle macchine. Nell'ultimo viene proposto l'arcinoto
imitation game, o test di Turing, per verificare se una macchina esibisca un comportamento intelligente.
Turing aveva sviluppato un esperimento mentale in cui immaginava l’attività di una macchina capace di compiere delle operazioni su un nastro potenzialmente infinito e diviso in caselle aventi un simbolo compreso tra un insieme limitato di stati: ad ogni istante t la macchina vede una casella e compie una possibile operazione sul nastro (modificando il simbolo o spostandosi in un’altra posizione), dando vita ad un possibile stato discreto s, o configurazione, sulla base di una serie di istruzioni valide per ogni possibile eventualità. Propose così un’ipotesi, nota come
congettura di Church-Turing, secondo cui i problemi calcolabili fossero quelli risolvibili da una macchina di Turing, identificando l’attività della computazione con un processo algoritmico equivalente a quello appena descritto. In questo modo si comprende che funzioni anche estremamente complesse possono essere computate e risolte attraverso una lunga serie di passaggi semplici realizzati attraverso procedure meccaniche automatizzate. L’aspetto più interessante, però, è che la formulazione di Turing vede nella computazione un tipo di attività indipendente dagli specifici strati fisici in grado di realizzarla. In altri termini, qualsiasi cosa implementata con un procedimento algoritmico può essere descritta come una macchina di Turing, anche un uomo dotato di un foglio con un insieme di istruzioni da seguire pedissequamente: il calcolo, insomma, è un processo universalizzabile.
In particolare, Turing riconosce che portando avanti tale ragionamento, anche l’attività del cervello, almeno in alcune sue funzioni, potrebbe essere interpretata come quella di una macchina di Turing, e il pensiero come un processo di calcolo, o algoritmo, per risolvere problemi. La questione è in realtà un po’ più complessa: infatti, sebbene Turing affermi che vi sia una forte somiglianza tra un cervello umano e una macchina universale, riconosce anche che vi siano delle differenze consistenti tra il suo modello e il reale funzionamento di un sistema nervoso. Turing vedeva la corteccia del neonato come una “macchina non organizzata”, cioè come un sistema in cui alcune delle componenti non rispondono a compiti predefiniti e funzioni determinate, ma che si strutturano da sé attraverso l’addestramento per inferenza, diventando qualcosa di simile ad una macchina universale alla fine di tale processo. Per questo motivo pensava che, piuttosto che considerare gli umani come macchine, sarebbe stato più utile considerare le macchine come bambini a cui fare apprendere “da sé” come elaborare le informazioni e comportarsi attraverso una sorta di processo educativo. Insomma, piuttosto che costruire macchine universali definite da principio, l’evoluzione delle macchine avrebbe dovuto prendere esempio dallo sviluppo dei cervelli, i quali, a partire da una struttura di base e un insieme di regole semplici, imparano ad elaborare una grande quantità e varietà di stimoli diversi in modo unico ed efficiente. Turing aveva di fatto aperto la strada agli studi sull’intelligenza artificiale contemporanea noti come
machine learning, così come all’applicazione dei concetti dell’informatica alla neurobiologia e viceversa.
La macchina di Turing rimaneva tuttavia un modello teorico astratto per spiegare la natura del calcolo e la gamma di problemi che potevano essere risolti con esso, ma costruire una simile macchina nella pratica era qualcosa di differente, e più vicino alle ambizioni di un altro grande matematico (e fisico, ed economo) di quegli anni, John von Neumann. Una volta scoperta la logica dietro i sistemi di calcolo e processazione di informazioni, la strada per realizzare dei computer eccezionalmente potenti, veloci e capaci di svolgere moltissimi processi pratici non era troppo lontana. Per realizzarli, fu necessario attendere lo sviluppo di una tecnologia rapida ed efficiente (transistor, chip, etc.), mentre il merito di von Neumann consistette nella formulazione di un modello strutturale dotato di spazi di memoria, un’unità di processazione e un canale di trasporto di informazione per input e output tra le componenti: la cosiddetta
architettura di Von Neumann, usata ancora oggi per costruire hardware programmabili con dati ed istruzioni per svolgere svariati compiti. Il matematico ungherese non si limitò soltanto a tale compito, ma fu il primo a cercare di connettere lo studio dell’informatica a quello delle neuroscienze, occupandosi di studiare a lungo e meticolosamente il funzionamento del cervello e delle sue componenti nei suoi ultimi anni di vita, condensati in questo saggio (con varie e interessanti prefazioni di illustri intellettuali: l'informatico Ray Kurzweil e i filosofi della mente Paul e Patricia Churchland).
Le sue ricerche diedero concretezza all’intuizione avuta da Turing di poter intendere il cervello alla stregua di un calcolatore. Da una parte egli trova una fortissima analogia tra l’attività dei neuroni, che consisterebbe nel continuo trasformare, combinare o bloccare impulsi elettrici che si riferiscono ad eventi esterni, e quella delle componenti di un calcolatore, così come nel fatto che entrambe le attività avvengono attraverso una serie di istruzioni affini a quelle di un algoritmo. Dall’altra, egli considera le loro differenze nel processare le informazioni in termini di velocità di elaborazione, rapidità e precisione nella trasmissione, tipo di processazione – digitale e per lo più seriale nei computer, un misto di analogico-digitale e in parallelo nei cervelli – e profondità aritmetica e logica. Da tutto ciò emerge l’idea che il cervello sarebbe assimilabile ad una macchina di calcolo o computer, per quanto particolare, formato da componenti semplici organizzati in reti distribuite (i neuroni collegati attraverso le sinapsi) e capaci di interpretare le informazioni derivanti dall’esterno grazie ad una serie di operazioni logiche e aritmetiche di base. Inoltre, prendeva piede l’ipotesi che, applicando ad esse le conoscenze sul funzionamento cerebrale, sarebbe stato possibile migliorare ulteriormente l’operatività delle macchine rendendole più “intelligenti” e vicine al pensiero umano (ma mantenendo la loro superiore precisione e velocità computazionale).
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Ho presentato questi due saggi assieme perché li ritengo due testi gemelli, che hanno costituito i pilastri fondamentali* di una nuova interpretazione della mente che ha dominato gli studi della seconda metà del Novecento: il
cognitivismo. Il nocciolo del cognitivismo classico sviluppatosi a partire dagli anni ‘50 risiede infatti nell’idea che il processo del pensiero consista in un’attività di computazione delle informazioni (gli input derivanti dall’ambiente) attraverso un linguaggio simbolico ed operazioni affini a quelle utilizzate dai computer e dalle intelligenze artificiali. In pratica, tutto ciò che avviene nel cervello è fisico, i neuroni lavorano sfruttando potenziali elettrici e sostanze neurochimiche, ma nel farlo essi realizzano operazioni logiche e simboliche dovute al fatto che le configurazioni risultanti dalla loro attività, oltre ad avere una realtà oggettiva, posseggono anche un contenuto e un carattere informativo sul mondo.
Da un certo punto di vista, il cognitivismo potrebbe essere visto come l’avverarsi dell’incubo di Cartesio: la completa riduzione della mente ad un processo meccanico. Non che i cognitivisti fossero stati i primi che avessero tentato una simile mossa concettuale, c'erano stati intellettuali materialisti** prima e correnti psicologiche come il behaviorismo che avevano pure avuto notevole influenza. Ma i modelli precedenti, per i cognitivisti, erano troppo semplici: se gli organismi fossero stati automi capaci solo di rispondere passivamente e in modo predefinito ad una serie di istanze, molti fenomeni complessi – ad esempio l’attenzione selettiva o la memoria – sarebbero risultati completamente inspiegabili. Se la mente è un macchina, la macchina deva essere complessa, una macchina capace di apprendere, di prevedere, di ricordare, di selezionare, di organizzare il proprio comportamento nel tempo. Doveva essere, insomma, una “macchina pensante”.
Turing e Von Neumann avevano dato sostanza a questo ribaltamento concettuale.
Quelle del pensiero-calcolo e quella del cervello-computer sono due metafore potenti, che hanno permesso uno sviluppo incredibile della conoscenza e delle ricerca sui processi cognitivi e sul sistema nervoso. Su questo c'è poco da discutere. Al tempo stesso, il problema nell'utilizzare troppo le metafore è che rischi di dimenticarti che le stai usando come strumento euristico e come scorciatoie per parlare di sistemi e relazioni complesse. Sarebbe lungo spiegare perché il cognitivismo, nonostante i suoi meriti concettuali e scientifici, abbia finito per addentrarsi in vicoli ciechi, distorcendo la cognizione con un'eccessiva semplificazione (nel caso ne possiamo discutere eh).
Per cui sintetizzo con un: no, il cervello non è un computer e no, il pensiero non è computazione.
Sicuramente ci sono analogie, e alcuni aspetti sono collegati, ma decenni di studio sui sistemi nervosi, sulle scienze cognitive e sull'intelligenza artificiale mostrano che ciò che avviene dentro le nostre teste (e attraverso il nostro corpo) è più complesso di così.
Ma questo stiamo imparando a capirlo anche grazie all'impulso che il cognitivismo ha dato allo studio della mente, impulso che ha trovato il proprio fondamento in questi classici di due geni del pensiero contemporaneo e grandissimi scienziati.
NOTE: