I Saggi del Cuore: letture e idee che lasciano un segno

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Re: I Saggi del Cuore: letture e idee che lasciano un segno

Messaggio da CombatZoneWrestling »

Inklings ha scritto: 06/04/2023, 23:14
Spoiler:
Gran post al solito
Non ho assolutamente le competenze adatte a discutere qualcosa di simile, ma mi sembra un argomento molto molto interessante, per quanto lontano da praticamente tutti i miei interessi.
Per metterla sul ridere: dovranno smettere di rompermi i coglioni quando in primavera insulto le piante che mi fanno star male, è tutto premeditato!



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Re: I Saggi del Cuore: letture e idee che lasciano un segno

Messaggio da Inklings »

CombatZoneWrestling ha scritto: 12/04/2023, 1:09
Per metterla sul ridere: dovranno smettere di rompermi i coglioni quando in primavera insulto le piante che mi fanno star male, è tutto premeditato!
Le piante sono malvagie, come intuì un grande regista del nostro tempo:



:almostlaughing:

Però sì, i vegetali spaccano :boh:
Meno dei funghi però, quelli stanno veramente ad un altro livello :esterefatto:

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Re: I Saggi del Cuore: letture e idee che lasciano un segno

Messaggio da CombatZoneWrestling »

Inklings ha scritto: 13/04/2023, 19:49 Le piante sono malvagie, come intuì un grande regista del nostro tempo:



:almostlaughing:

Però sì, i vegetali spaccano :boh:
Meno dei funghi però, quelli stanno veramente ad un altro livello :esterefatto:
I funghi davvero fighi, creature affascinanti e che secondo il mio pseudoscienziato preferito hanno un modo tutto loro di comunicare.

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Re: I Saggi del Cuore: letture e idee che lasciano un segno

Messaggio da Inklings »

16/52

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Stephen J. Gould. Il più noto evoluzionista americano. Il paleontologo più pop della storia. L’acerrimo nemico di Richard Dawkins. Oltre che abilissimo divulgatore, intellettuale controverso e maestro del pensiero critico anche verso le ortodossie scientifiche più radicate. In biologia evoluzionistica è ricordato per i suoi contributi sul tema della speciazione* e per l’ampliamento del concetto di adattamento**, oltre ad altre scoperta, proposta teoriche e sintesi scientifiche. In questo testo, Gould ci racconta una storia affascinante: il ritrovamento e gli studi su uno dei più famosi giacimenti fossili della storia, Burgess Shale in Canada. Risalente al periodo Cambriano (più di 500 mln di anni fa), questo luogo è una finestra su un periodo fondamentale della storia della vita, agli albori della vita multicellulare***. Nella riflessione dell’autore, inoltre, lo studio dei fossili conservatisi in questo luogo ha implicazioni profonde sulla nostra comprensione dell’evoluzione e di tutta la storia della vita, compresa la presenza della nostra specie sulla terra.

Mentre ci aspetteremo di ritrovare organismi estremamente semplici poco dopo l’origine della vita cellulare, i fossili magnificamente conservati e ritrovati nella cava di Burgess Shale testimoniano l’esistenza di animali dotati di piani anatomici bizzarri e in alcuni casi totalmente diversi rispetto a quelli degli organismi oggi presenti sulla terra, probabilmente inseriti in una trama ecologica piuttosto complessa (per esempio, si tende a far risalire a tale periodo l’origine della predazione multicellulare). Secondo Gould, questo fatto sarebbe un’ennesima riprova del fatto che l’evoluzione non si limiterebbe ad una modellazione ingegneristica rispondente ad ambienti dati, caratterizzandosi piuttosto come continua esplorazione di possibilità da parte degli organismi e delle loro classi.

Così, in nicchie libere come quelle del mondo di 600 mln di anni fa, la vita poté testare soluzioni incredibilmente varie sia dal punto di vista dei piani anatomici che dei comportamenti: in un mondo libero da “necessità” e passi obbligati (a parte il metabolismo, la riproduzione e poco altro), in cui cioè le “condizioni di soddisfacimento” per sopravvivere erano al minimo, non assistiamo ad una assestarsi verso poche soluzioni di equilibrio semplici, ma ad un proliferare incontrollato di variazioni e strategie evolutive complicate in un periodo di tempo estremamente rapido, con tanto di parti corporee superflue, apparentemente inutili o non facilmente comprensibili nell’ottica di un processo adattivo standard:
Spoiler:
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Va' che figata l'Hallucigenia, un animaletto cilindrico simile ad un verme, ma dotato di quattordici spine, sette piccoli tentacoli e un’estremità tondeggiante. La stranezza di Hallucigenia, difficilmente catalogabile come un organismo dall’anatomia semplice o particolarmente funzionale, è testimoniata dal fatto che gli esperti dibattano ancora su quale sia il suo verso di “camminata”: sui tentacoli o sulle spine?
I fan di AoT avranno notato la somiglianza con la "cosa" che incontra Ymir.

Gould arriva addirittura a formulare l’idea che poco dopo l’origine della vita pluricellulare gli organismi mostrassero una maggior differenziazione e potenzialità evolutiva rispetto a quelli viventi oggi. Contro l’immagine del “cono di diversità crescente”, egli immaginava la storia della vita come caratterizzata da periodi di esplosioni, o radiazioni adattive, degli organismi nel testare soluzioni morfologiche ed ecologiche con successivi periodi di decimazione (estinzioni, colli di bottiglia, etc.) che procedano a fissare l’enorme variabilità iniziale in percorsi più limitati. A questo proposito, Gould decise di distinguere il concetto di “disparità”, cioè di differenziazione nei piani anatomici (o phyla) dei viventi, da quello di “diversità”, ossia di differenziazioni di classi e specie all’interno di uno stesso phylum (ad esempio, in quello degli artropodi o dei cordati, di cui noi umani facciamo parte), asserendo come nel periodo Cambriano possiamo assistere ad un proliferare della prima caratteristica, mentre sul suo finire solo alcuni di questi piani si siano mantenuti e stabilizzati, costringendo l’evoluzione successiva a procedere a partire dalle strutture anatomiche sopravvissute:
Spoiler:
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Il vero albero della vita, secondo Gould
Il modello di Gould mette al centro dei processi evolutivi un fattore di continua contingenza in cui gli organismi non risultano più come prodotti di una sola fabbricazione ingegneristica modellata da eventi esterni: la selezione non è, in questa logica, un meccanismo algoritmico dall’esito lineare, ma un processo in cui si incontrano molteplici fattori e in cui il puro caso (o la pura storia) gioca un ruolo predominante****. Questo non toglie che la natura abbia dato esito ad organismi di indubbia complessità e plasticità, morfologica e comportamentale; ma questo risultato non è una legge di natura, né una conclusione necessaria dei processi evolutivi, quanto una possibilità realizzatasi grazie al lunghissimo tempo, alla variabilità e all’enorme quantità di tentativi fallimentari che hanno caratterizzato la storia della vita. In linea di principio, la vita avrebbe potuto non evolversi mai oltre gli organismi unicellulari (ci vollero quasi di 2 mld di anni per il solo passaggio da cellula procariote ad eucariote), ma la continua esplorazione evolutiva e l’enorme tempo a disposizione resero più probabile lo sviluppo di animali e cervelli. Tra le implicazioni di questa situazione, dice ancora Gould, sta il fatto che noi esseri umano non siamo la conclusione di un progresso necessario dal semplice al complesso – che in questo caso sarebbe piuttosto un’illusione retrospettiva della nostra mente che tenta di auto-comprendersi – ma un «accidente glorioso» frutto del dialogo tra «la prevedibilità sotto la legge invariante e le molteplici possibilità della contingenza storica»*****.

La fauna di Burgess Shale insegna che la vita è innanzitutto un’esplorazione di possibilità. Essa è, da una parte, vincolata dalla necessità di conservare e partire dai risultati del precedente lavoro evolutivo – anche sfruttandoli per nuove funzioni –, dall’altra è soggetta a possibili sconvolgimenti accidentali, cambi di regole improvvisi, situazioni inaspettate in cui le dinamiche del gioco possono improvvisamente cambiare invertendo le parti dei vincitori “perfettamente adattati” e dei perdenti “a malapena sufficienti”. Così, la piccola ed indifesa Pikaia Gracilens, un animale di 5cm simile ad un lombrico, sopravvisse al terribile predatore Anomalocaris e a molti altri esemplari precedentemente più adatti, ma che non superarono l’estinzione (l’improvviso ed “ingiusto” cambio di regole) che colpì quel periodo. Se essa, antenato comune di tutti i cordati (tra cui anche noi vertebrati), non fosse sopravvissuta contro ogni aspettativa, oggi noi, e le nostre menti, non saremmo qui:
Spoiler:
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La nostra fragilissima antenata, Pikaia.
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E il terribile Anomalocaris, ispirazione per il pokemon Anorith.
Straconsigliato, Gould è un narratore eccezionale.

NOTE PER GLI AVVENTUROSI:
Spoiler:
*Come l’ipotesi degli “equilibri punteggiati”. In sintesi, i processi che danno origine alle specie non sono necessariamente eventi graduali in mln di anni, ma possono caratterizzarsi come un accumulo “rapido” (decine/centinaia di migliaia di anni) di variazioni accelerato da specifici eventi di isolamento geografico seguiti da lunghissimi periodi di stasi.
**Come il concetto di exaptation, un modello di trasformazione evolutiva distinto da un processo adattivo standard dove un tratto è selezionato gradualmente “per” assumere funzioni specifiche. Secondo il principio dell’exaptation, tratti biologici o comportamentali precedentemente utili per una funzione possono – col tempo e con il variare delle condizioni ecologiche – assumerne un’altra (è il caso delle penne dei proto-uccelli, precedentemente utili per la termoregolazione e rivelatesi efficaci per planate e per il volo) o addirittura assumerne una a partire da una precedente condizione di inutilità.
***Prima del Cambriano ci fu la misteriosa Fauna di Ediacara (640-550 mln): animali dal corpo molle, simili a foglie o filamenti che probabilmente sopravvivevano strisciando sul fondale marino. Ci sono ancora poche testimonianze fossili di questo periodo, soggetto a molte speculazioni.
****Qui ci ricolleghiamo al titolo scelto da Gould per questo libro, che omaggia esplicitamente il celeberrimo film di Natale di Frank Capra dove il protagonista, George Bailey, impara a vedere l’impatto che una singola esistenza e le sue scelte storiche possono avere sul groviglio intricato di tutte le altre.
*****p. 298.

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Re: I Saggi del Cuore: letture e idee che lasciano un segno

Messaggio da Inklings »

17/52

Mi scuso in anticipo perché non sto un po' in pappa in questi giorni e quindi è possibile che abbia scritto un po' così così o delle mezze castronate (cosa che mi spiacerebbe, con un testo come questo).

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Questo libro è considerato l’apripista del movimento ambientalista, nei lontani anni 60. Un saggio epocale, un avvertimento potente e suggestivo, l’ultimo lascito da parte di una biologa intraprendente e coraggiosa. Qui la Carson sfidò una conquista tecnologica che, nei decenni a lei precedenti, era stata considerata la svolta per la lotta alle malattie: i pesticidi (insetticidi ed erbicidi, in particolare quelli a base di cloro e fluoro) come l’arcinoto DDT. In molti paesi, come del resto pure nella nostra Italia, l’uso di queste sostanze era stata largamente usata sia per combattere la malaria (con risultati alterni: vittorie locali, ma non definitive) sia nelle coltivazioni per difenderle dagli attacchi degli insetti; ma secondo la studiosa americana, armata di dati, osservazioni e studi da parte di vari ricercatori negli anni, esse erano anche potenti e pervasivi strumenti di morte anche al di fuori del loro uso sugli insetti.

In questi ultimi, sostanze come il DDT provocavano gravi danni al sistema nervoso e la morte. Cospargendo i campi in modo esteso con quantità controllate, si credeva di poter aver una protezione infallibile per i raccolti con un danno nullo per l’uomo e gli altri animali, poiché negli insetti erano sufficienti piccolissime quantità (calcolate in p.p.m. o mg/kg) per avere effetti considerevoli, che invece risultavano troppo lievi per animali di taglia più grossa. O almeno, così sembrava. Il titolo del libro evoca un’immagine potente e suggestiva: con l’andare avanti degli anni, la Carson osservava delle primavere americane sempre più silenziose, ossia sempre più spoglie di canti da parte degli uccelli. Dove erano finiti? Perché (dati alla mano) si stava assistendo a morie sempre più ingenti di questi animali? Il motivo è racchiuso da due concetti fratelli divenuti, da questo testo in poi, valuta comune per gli studi di ecologia: bioaccumulo e biomagnificazione.

In pratica, sostanze come il DDT hanno la caratteristica di non essere idrosolubili e di rimanere sul terreno per lunghi periodi. Possono passare nelle falde acquifere, essere trasportate dall’acqua (o da altri vettori tipo animali) e trovarsi in luoghi molto lontani da quelli dell’originale diffusione (ne sono state trovate tracce persino ai poli). Tuttavia, sono liposolubili, cioè si sciolgono e si diffondono nei grassi, e fanno danni. Ora, gli animali sono chiaramente inseriti in catene trofiche che portano queste sostanze ad accumulare sempre più concentrazioni man mano che si sale la catena alimentare. Magari in un terreno con una superficie x viene diffusa una quantità y così che ci sia una certa concentrazione. Ma mettiamo che queste sostanze vengano ingerite da insetti o vermi, che ne accumulano un po’. Poi arrivano gli uccelli (o i pesci, o piccoli mammiferi, etc.) che mangiano i vermi, etc. e sorpresa, troviamo delle quantità decine di volte superiori in questi animali. Che risultano o letali, o dannose per la loro riproduzione (si scoprì che le uova deposte da uccelli con grandi quantità di DDT risultavano meno spesse e nutrienti, con risultati evidenti).

Anche l’uomo, stando a stretto contatto con ingenti quantità di tali sostanze senza particolari protezioni (spesso venivano diffuse da persone senza alcuna preparazione, o usate da privati nelle loro case) rischiava di avere danni gravi. Pur non avendo un contatto esteso, piccole quantità accumulatesi poco per volta potevano risultare in aumenti di decorsi cancerogeni. Oltre a ciò, nota la Carson, l’uso massivo di queste tecnologie ebbe l’effetto di far sviluppare nuove generazioni di insetti incredibilmente resistenti a tali sostanze, con risultati opposti a quelli sperati nel loro utilizzo.* Questo non significa, secondo la biologa, che queste sostanze debbano essere sempre e comunque evitate, ma che il loro utilizzo debba sempre essere preceduto da una valutazione dei rischi e della necessità del loro ricorso: ad esempio, in paesi poveri in cui ci sia una grande diffusione della malaria il loro utilizzo ha un senso, in quanto il rischio di possibili effetti negativi per gli umani ha una probabilità (e gravità) molto minore di quella di contrarre tale malattia (e infatti il DDT è ancora usato in alcuni paesi dell’Africa e in India, e organizzazioni come OMS si sono pronunciate positivamente in merito).

Il saggio fece molto rumore: negli anni successivi, sulla spinta dell’opinione pubblica e dei movimenti ambientalisti, il DDT fu vietato per l’uso agricolo in USA e molti altri paesi, considerato come potenzialmente cancerogeno (oltre che estremamente impattante a livello ecologico). Più che come testo scientifico (funzione che comunque ricopre più che dignitosamente, per quanto datato), io ne consiglio la lettura per un motivo diverso. La scrittura della Carson è una commovente difesa della natura, una lettera d’amore struggente e una richiesta d’aiuto suggestiva e poetica. Un monumento alla coscienza ecologica capace di smuovere i cuori delle persone e di aprire la loro mente aiutando a guardare le cose in una prospettiva meno superficiale e più sistemica. E se l’ecologia è la scienza di come ogni cosa si relazioni a tutte le altre, il libro della Carson rimane una delle sue espressioni più alte e al tempo stesso più accessibili a qualsiasi lettore.

NOTA
Spoiler:
*Questa è la vecchia lezione evoluzionista dell’adattamento. La Carson nel testo propone di ricorrere piuttosto all’introduzione ragionata di specie rivali antagoniste, aumentando la biodiversità della zona e introducendo controlli naturali di popolazione (un’idea abbastanza innovativa al tempo). In un’altra sezione propone anche l’introduzione di varianti sterilizzate in laboratorio per le specie esterne invasive (oggi qualcosa di simile è l’idea del gene drive, pensata come nuova tecnologia per il debellamento della malaria). Io sono sempre un po’ scettico su simili soluzioni, ma c’è da dire che l’autrice espone le modalità in modo ragionato e comunque sempre piuttosto cautamente, con un’attenzione pragmatica ad ogni situazione valutandola in modo specifico.

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Re: I Saggi del Cuore: letture e idee che lasciano un segno

Messaggio da Hellcome »

Complimentoni per il topic, lurko con grandissimo piacere.


Spillover mi ha letteralmente cambiato la vita (motivo per il cui faccio il mestiere che faccio), rileggerlo durante la pandemia dopo 10 anni circa è stato pura """magia""".

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Re: I Saggi del Cuore: letture e idee che lasciano un segno

Messaggio da Inklings »

18/52 e 19/52.

Oggi baro, portando due libri assieme. Sono entrambi brevi, ma densissimi di concetti. Hanno entrambi rivoluzionato il nostro modo di comprendere la realtà e la mente. Sono stati scritti da due dei più grandi geni del secolo scorso, e forse di qualsiasi altro tempo. Soprattutto, sono strettamente legati

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Tra gli anni ‘30 e ’50 il matematico inglese Alan Turing rivoluziona completamente il modo di concepire l’automazione e dà vita alla moderna scienza dei calcolatori. Secondo Turing, il cui pensiero è condensato in questa raccolta di saggi, il processo di calcolo può essere visto come un’attività algoritmica, ossia un programma che, dato un insieme finito di istruzioni chiare e non ambigue, è in grado di risolvere un problema in un numero limitato di passi discreti. Nei primi saggi vengono esposte le idee fondamentali sul funzionamento logico di un calcolatore, mentre gli ultimi due (un pochino meno ostici e probabilmente più interessanti per noi) si pongono il problema dell'intelligenza e del pensiero delle macchine. Nell'ultimo viene proposto l'arcinoto imitation game, o test di Turing, per verificare se una macchina esibisca un comportamento intelligente.

Turing aveva sviluppato un esperimento mentale in cui immaginava l’attività di una macchina capace di compiere delle operazioni su un nastro potenzialmente infinito e diviso in caselle aventi un simbolo compreso tra un insieme limitato di stati: ad ogni istante t la macchina vede una casella e compie una possibile operazione sul nastro (modificando il simbolo o spostandosi in un’altra posizione), dando vita ad un possibile stato discreto s, o configurazione, sulla base di una serie di istruzioni valide per ogni possibile eventualità. Propose così un’ipotesi, nota come congettura di Church-Turing, secondo cui i problemi calcolabili fossero quelli risolvibili da una macchina di Turing, identificando l’attività della computazione con un processo algoritmico equivalente a quello appena descritto. In questo modo si comprende che funzioni anche estremamente complesse possono essere computate e risolte attraverso una lunga serie di passaggi semplici realizzati attraverso procedure meccaniche automatizzate. L’aspetto più interessante, però, è che la formulazione di Turing vede nella computazione un tipo di attività indipendente dagli specifici strati fisici in grado di realizzarla. In altri termini, qualsiasi cosa implementata con un procedimento algoritmico può essere descritta come una macchina di Turing, anche un uomo dotato di un foglio con un insieme di istruzioni da seguire pedissequamente: il calcolo, insomma, è un processo universalizzabile.

In particolare, Turing riconosce che portando avanti tale ragionamento, anche l’attività del cervello, almeno in alcune sue funzioni, potrebbe essere interpretata come quella di una macchina di Turing, e il pensiero come un processo di calcolo, o algoritmo, per risolvere problemi. La questione è in realtà un po’ più complessa: infatti, sebbene Turing affermi che vi sia una forte somiglianza tra un cervello umano e una macchina universale, riconosce anche che vi siano delle differenze consistenti tra il suo modello e il reale funzionamento di un sistema nervoso. Turing vedeva la corteccia del neonato come una “macchina non organizzata”, cioè come un sistema in cui alcune delle componenti non rispondono a compiti predefiniti e funzioni determinate, ma che si strutturano da sé attraverso l’addestramento per inferenza, diventando qualcosa di simile ad una macchina universale alla fine di tale processo. Per questo motivo pensava che, piuttosto che considerare gli umani come macchine, sarebbe stato più utile considerare le macchine come bambini a cui fare apprendere “da sé” come elaborare le informazioni e comportarsi attraverso una sorta di processo educativo. Insomma, piuttosto che costruire macchine universali definite da principio, l’evoluzione delle macchine avrebbe dovuto prendere esempio dallo sviluppo dei cervelli, i quali, a partire da una struttura di base e un insieme di regole semplici, imparano ad elaborare una grande quantità e varietà di stimoli diversi in modo unico ed efficiente. Turing aveva di fatto aperto la strada agli studi sull’intelligenza artificiale contemporanea noti come machine learning, così come all’applicazione dei concetti dell’informatica alla neurobiologia e viceversa.

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La macchina di Turing rimaneva tuttavia un modello teorico astratto per spiegare la natura del calcolo e la gamma di problemi che potevano essere risolti con esso, ma costruire una simile macchina nella pratica era qualcosa di differente, e più vicino alle ambizioni di un altro grande matematico (e fisico, ed economo) di quegli anni, John von Neumann. Una volta scoperta la logica dietro i sistemi di calcolo e processazione di informazioni, la strada per realizzare dei computer eccezionalmente potenti, veloci e capaci di svolgere moltissimi processi pratici non era troppo lontana. Per realizzarli, fu necessario attendere lo sviluppo di una tecnologia rapida ed efficiente (transistor, chip, etc.), mentre il merito di von Neumann consistette nella formulazione di un modello strutturale dotato di spazi di memoria, un’unità di processazione e un canale di trasporto di informazione per input e output tra le componenti: la cosiddetta architettura di Von Neumann, usata ancora oggi per costruire hardware programmabili con dati ed istruzioni per svolgere svariati compiti. Il matematico ungherese non si limitò soltanto a tale compito, ma fu il primo a cercare di connettere lo studio dell’informatica a quello delle neuroscienze, occupandosi di studiare a lungo e meticolosamente il funzionamento del cervello e delle sue componenti nei suoi ultimi anni di vita, condensati in questo saggio (con varie e interessanti prefazioni di illustri intellettuali: l'informatico Ray Kurzweil e i filosofi della mente Paul e Patricia Churchland).

Le sue ricerche diedero concretezza all’intuizione avuta da Turing di poter intendere il cervello alla stregua di un calcolatore. Da una parte egli trova una fortissima analogia tra l’attività dei neuroni, che consisterebbe nel continuo trasformare, combinare o bloccare impulsi elettrici che si riferiscono ad eventi esterni, e quella delle componenti di un calcolatore, così come nel fatto che entrambe le attività avvengono attraverso una serie di istruzioni affini a quelle di un algoritmo. Dall’altra, egli considera le loro differenze nel processare le informazioni in termini di velocità di elaborazione, rapidità e precisione nella trasmissione, tipo di processazione – digitale e per lo più seriale nei computer, un misto di analogico-digitale e in parallelo nei cervelli – e profondità aritmetica e logica. Da tutto ciò emerge l’idea che il cervello sarebbe assimilabile ad una macchina di calcolo o computer, per quanto particolare, formato da componenti semplici organizzati in reti distribuite (i neuroni collegati attraverso le sinapsi) e capaci di interpretare le informazioni derivanti dall’esterno grazie ad una serie di operazioni logiche e aritmetiche di base. Inoltre, prendeva piede l’ipotesi che, applicando ad esse le conoscenze sul funzionamento cerebrale, sarebbe stato possibile migliorare ulteriormente l’operatività delle macchine rendendole più “intelligenti” e vicine al pensiero umano (ma mantenendo la loro superiore precisione e velocità computazionale).

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Ho presentato questi due saggi assieme perché li ritengo due testi gemelli, che hanno costituito i pilastri fondamentali* di una nuova interpretazione della mente che ha dominato gli studi della seconda metà del Novecento: il cognitivismo. Il nocciolo del cognitivismo classico sviluppatosi a partire dagli anni ‘50 risiede infatti nell’idea che il processo del pensiero consista in un’attività di computazione delle informazioni (gli input derivanti dall’ambiente) attraverso un linguaggio simbolico ed operazioni affini a quelle utilizzate dai computer e dalle intelligenze artificiali. In pratica, tutto ciò che avviene nel cervello è fisico, i neuroni lavorano sfruttando potenziali elettrici e sostanze neurochimiche, ma nel farlo essi realizzano operazioni logiche e simboliche dovute al fatto che le configurazioni risultanti dalla loro attività, oltre ad avere una realtà oggettiva, posseggono anche un contenuto e un carattere informativo sul mondo.

Da un certo punto di vista, il cognitivismo potrebbe essere visto come l’avverarsi dell’incubo di Cartesio: la completa riduzione della mente ad un processo meccanico. Non che i cognitivisti fossero stati i primi che avessero tentato una simile mossa concettuale, c'erano stati intellettuali materialisti** prima e correnti psicologiche come il behaviorismo che avevano pure avuto notevole influenza. Ma i modelli precedenti, per i cognitivisti, erano troppo semplici: se gli organismi fossero stati automi capaci solo di rispondere passivamente e in modo predefinito ad una serie di istanze, molti fenomeni complessi – ad esempio l’attenzione selettiva o la memoria – sarebbero risultati completamente inspiegabili. Se la mente è un macchina, la macchina deva essere complessa, una macchina capace di apprendere, di prevedere, di ricordare, di selezionare, di organizzare il proprio comportamento nel tempo. Doveva essere, insomma, una “macchina pensante”.
Turing e Von Neumann avevano dato sostanza a questo ribaltamento concettuale.

Quelle del pensiero-calcolo e quella del cervello-computer sono due metafore potenti, che hanno permesso uno sviluppo incredibile della conoscenza e delle ricerca sui processi cognitivi e sul sistema nervoso. Su questo c'è poco da discutere. Al tempo stesso, il problema nell'utilizzare troppo le metafore è che rischi di dimenticarti che le stai usando come strumento euristico e come scorciatoie per parlare di sistemi e relazioni complesse. Sarebbe lungo spiegare perché il cognitivismo, nonostante i suoi meriti concettuali e scientifici, abbia finito per addentrarsi in vicoli ciechi, distorcendo la cognizione con un'eccessiva semplificazione (nel caso ne possiamo discutere eh).

Per cui sintetizzo con un: no, il cervello non è un computer e no, il pensiero non è computazione.
Sicuramente ci sono analogie, e alcuni aspetti sono collegati, ma decenni di studio sui sistemi nervosi, sulle scienze cognitive e sull'intelligenza artificiale mostrano che ciò che avviene dentro le nostre teste (e attraverso il nostro corpo) è più complesso di così.
Ma questo stiamo imparando a capirlo anche grazie all'impulso che il cognitivismo ha dato allo studio della mente, impulso che ha trovato il proprio fondamento in questi classici di due geni del pensiero contemporaneo e grandissimi scienziati.

NOTE:
Spoiler:
*Ma non unici, ci stanno altri studi come la teoria dell'informazione di Shannon. la cibernetica di Wiener, gli studi dei connessionisti, etc.
**Mi piace ricordare, tra i tanti, L'uomo macchina di Julien Offray de La Mettrie, filosofo e medico illuminista, che ho trovato molto bellino.
Ultima modifica di Inklings il 20/05/2023, 15:21, modificato 2 volte in totale.

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Re: I Saggi del Cuore: letture e idee che lasciano un segno

Messaggio da Inklings »

Hellcome ha scritto: 27/04/2023, 11:20 Complimentoni per il topic, lurko con grandissimo piacere.


Spillover mi ha letteralmente cambiato la vita (motivo per il cui faccio il mestiere che faccio), rileggerlo durante la pandemia dopo 10 anni circa è stato pura """magia""".
Gracias per questo endorsement :beer:

Per caso hai letto qualcos'altro di Quammen? Che ha scritto altri testi a tema evoluzionistico elogiati pure da Pievani, ma sono tutti discreti tomi e prima di iniziarli vorrei qualche garanzia in più :ooops:

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Re: I Saggi del Cuore: letture e idee che lasciano un segno

Messaggio da Hellcome »

In realtà no, specie perchè discostavano da quel tono "a mo' di cronaca" che ho adorato di Spillover (e che tanti criticano).

Poi sono una brutta persona e devo ammettere che l'evoluzionistica in generale non mi attira in maniera così feroce ecco. Lo so, è terribile.

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Re: I Saggi del Cuore: letture e idee che lasciano un segno

Messaggio da Inklings »

Hellcome ha scritto: 27/04/2023, 22:42 In realtà no, specie perchè discostavano da quel tono "a mo' di cronaca" che ho adorato di Spillover (e che tanti criticano).

Poi sono una brutta persona e devo ammettere che l'evoluzionistica in generale non mi attira in maniera così feroce ecco. Lo so, è terribile.
:addolorato:

I gusti so’ gusti, ma non sai che ti perdi :ammiccante:

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Re: I Saggi del Cuore: letture e idee che lasciano un segno

Messaggio da Inklings »

20/52

Ritorno portando un classicone un po' datato ma estremamente affascinante da parte di uno dei più grandi fisici del secolo scorso.

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Vabbé Schrödinger non ha bisogno di presentazione. Nel '43 aveva già vinto il Nobel e stava tenendo delle lezioni al Trinity College, che poi confluiranno in questo libricino l'anno successivo. L'obbiettivo della sua ricerca è ambizioso: accordare le leggi fisiche del tempo al fenomeno della vita e cercare di darne una spiegazione. Tenendo presente che la scoperta del materiale genetico come DNA (e non proteine) e della sua struttura a doppia elica verrà fatta solo qualche anno più tardi. E gli stessi Crick, Watson, Franklin e Wilkins furono influenzati nella loro ricerca proprio dalle intuizioni fisico austriaco qui presentate.

Il problema principale, per Schrödinger, è che gli esseri viventi sono strutture incredibilmente ordinate, ma al tempo stesso regolate da un meccanismo ereditario microscopico, scala che secondo la fisica deve essere estremamente disordinata. Come può l'ordine macroscopico dei viventi derivare da un caos microscopico? Il secondo problema è che le forme di vita mantengono il proprio stato di ordine, ma secondo la seconda legge della termodinamica i sistemi fisici dovrebbero tendere sempre a una maggiore entropia. Come fanno gli organismi a opporsi alla termodinamica?

L'aspetto più interessante di questo saggio, per me, è l'atteggiamento di Schrödinger rispetto a tali problemi, che danno una grandissima lezione scientifica. Da una parte, la vita è un fenomeno della natura che deve esistere in accordo con l'esistenza di precise leggi fisiche e chimiche: la diversità dei viventi dalla materia inorganica non deve indurre a invocare la presenza di una sostanza o principio immateriale o fantomatiche regole misteriose (vitalismo), ma a farci comprendere che il problema deve riguardare le modalità attraverso cui è organizzata la materia da cui sono composti, seguendo delle regole differenti, ma al tempo stesso in linea e coerenti con quelle della fisica inorganica. Dall'altra, lo studio di fenomeni così specifici costituì un'occasione per vedere l'insufficienza dei concetti teorici allora disponibili e la necessità di sviluppare nuove idee, nuove ricerche e nuove leggi che ampliassero la nostra visione scientifica del mondo.

Così, ad esempio, il fisico austriaco rilegge il meccanismo ereditario come molecole microscopiche, ma anche composta da molti atomi; sicuramente stabili (senza tale stabilità non sarebbe possibile la replicazione delle cellule e la riproduzione nelle specie), ma anche diversificati e soggetta a mutazioni (senza questo non sarebbe possibile la variazione negli organismi e l'evoluzione). Insomma, un oggetto del tutto nuovo rispetto a qualsiasi altra cosa mai studiata dalle scienze fisiche. Lo chiamò cristallo aperiodico, una struttura costituita da legami chimici solidi ma che non si ripete mai in modo uguale e aperta alla variazioni. Un'intuizione che si rivelerà corretta, perché la struttura del DNA consente proprio queste caratteristiche, garantendo sia la riproduzione invariante degli organismi sia la loro diversità. Per quanto riguarda la termodinamica, Schrödinger considera i viventi non più come sistemi isolati ma come sistemi aperti, che possono mantenere (per un certo periodo) il proprio ordine interno "sottraendolo" all'ambiente in cui vivono: così, mentre il sistema vivente possiede un'entropia negativa (o neghentropia), l'entropia generale del sistema vivente+ambiente aumenta continuamente, in accordo con la termodinamica.

Un bel libretto pieno di intuizioni e con una scrittura comunque abbastanza accessibile. Per quanto datato e complesso, dà una interessante prospettiva su un problema complesso a cavallo tra molteplice discipline, senza essere eccessivamente proibitivo.
Nota di demerito personale: le ultime pagine dell'ultimo capitolo sul libero arbitrio sono ... brutte. La scrittura è meno ispirata, e la trattazione del problema è molto insoddisfacente.* Probabile che sia più un problema mio, che ho sempre trovato la questione poco interessante e raramente mi è capitato di leggere prospettive che mi colpissero davvero, quindi vabbé, non ne faccio un gran cruccio.

NOTA:
Spoiler:
*Tra l'altro, la meccanica quantistica ha ispirato una serie di pensatori che tentano di difendere la libertà umana dal determinismo invocando l'indeterminazione a livello microscopico. L'ho sempre trovato un tentativo un po' triste, e per certi versi una prospettiva pure meno interessante.

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Re: I Saggi del Cuore: letture e idee che lasciano un segno

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21/52

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Ernst Mayr è stato sicuramente uno dei più grandi biologi mai vissuti, illustre zoologo, sistematico ed esperto di speciazione. Negli anni 40 contribuì significativamente a quel processo di integrazione tra la teoria darwiniana e l’ereditarietà mendeliana che venne chiamato Sintesi Moderna e che costituisce lo scheletro della biologia contemporanea. In particolare, fu proprio Mayr (insieme a Dobzhansky) a proporre uno dei concetti cardine di questa disciplina, ossia il noto concetto biologico di specie (BSC), per il quale quest’ultima identifica una comunità di individui interfecondi in grado di generare una prole fertile.* Nel corso degli anni ha prodotto numerosissimi testi di grande caratura in cui ha sistematizzato le scoperte della Sintesi, analizzato il pensiero darwiniano (di cui è stato probabilmente il più grande interprete) e definito il campo di studio delle discipline biologiche e dei loro concetti (es. la distinzione tra “cause prossime” e “cause remote”). In questo testo, scritto alla veneranda età di 100 anni (gigachad), ripercorre e sintetizza alcuni elementi chiave dello studio della biologia, riflettendo sulla differenza di campo e di metodo che intercorre tra il suo studio e quello delle altre discipline scientifiche (sì, è anche una difesa dalle visioni riduzioniste di stampo fisicalista).

Il punto fondamentale del libro è l’argomentazione della biologia come scienza autonoma che possiede delle proprietà nuove rispetto alle discipline fisiche. Questo sia perché i fenomeni studiati dalla biologia sono sistemi aventi caratteristiche diverse dai processi fisici e chimici che li compongono**, sia perché il metodo per studiare tali sistemi varia di conseguenza. Si passa quindi prima a trattare alcuni temi cardine dello studio biologico, quali i sistemi biologici come mesocosmo, teleologia vs teleonomia***, la differenza tra analisi e riduzionismo. Successivamente, Mayr dedica alcuni capitoli all’analisi del pensiero darwiniano, di cui lui stesso ha introdotto alcune categorie ermeneutiche fondamentali (ad esempio l’idea di “pensiero popolazionale” e la distinzione in 5 sotto-teorie, di cui ho accennato parlando dell’Origine), e si concentra, ovviamente, sui concetti di specie e di selezione naturale. Gli ultimi capitoli sono dedicati all’evoluzione della nostra specie e al tema della “solitudine” (o meno) nell’universo (qui dico subito che c’è roba migliore in giro, ma non essendo un libro specifico sul tema va più che bene). Il tutto, da grande evoluzionista, con una prospettiva genealogica che indaga l’origine e la trasformazione storica di queste problematiche.

In sintesi, è un libro che consiglio molto perché offre un’introduzione ragionata ma al tempo stesso sintetica e accessibile alla biologia evoluzionistica da parte di uno dei suoi più grandi interpreti. Penso che dalle pagine traspaia una passione e un amore per lo studio di queste discipline che è incredibile da parte di una persona arrivata a una simile età, mantenendo tra l’altro una lucidità di pensiero veramente impressionate. D’altra parte (cosa che per me è un valore aggiunto), non si tratta di una semplice presentazione dei temi fondamentali, ma una vera e propria ermeneutica della disciplina e delle sue idee fondamentali in un’ottica anti-riduzionista e pluralista (su cui, metto le mani avanti, io sono abbastanza un fan). Se volete saperne di più sull’evoluzione e su che cosa renda speciali gli esseri viventi, penso che questo libro faccia per voi.

Spoiler:
*Ricordo qui che si tratta di una espressione di rottura rispetto al pensiero di Darwin, che aveva espresso una posizione nominalista rispetto al problema delle specie (in soldoni, per lui si trattava di categorie arbitrarie usate per fissare una somiglianza tra individui morfologicamente simili). Ci sono motivi profondi per cui Darwin adottò una posizione di questo tipo (primo fra tutti, contrastare l’interpretazione essenzialista e creazionista delle specie sistematizzata da Linneo), ed è comunque vero che le definizioni di specie che possiamo dare sono abbastanza soggette ad arbitrarietà. Banalmente, il BSC è inapplicabile per organismi a riproduzione asessuata e ci sono comunque eccezioni (es. “specie” diverse che si ibridano senza problemi, non ultimi i Sapiense i Neanderthal); negli anni sono stati proposti numerosi concetti di specie, di tipo ecologico (Van Valen), filetico, etc., ma tutti in ultima istanza parziali rispetto alle enormi diversità dell’evoluzione. In ogni caso, il BSC rimane una pietra angolare della biologia contemporanea e un concetto incredibilmente fecondo (tra gli altri, ha stimolato anche gli Equilibri Punteggiati di Gould ed Eldredge, di cui ho accennato in un'altra occasione).

**In filosofia della scienza si è soliti parlate di emergentismo in questi casi, ossia l’idea che alcuni sistemi posseggano delle proprietà nuove rispetto alle parti che li compongono. Ci sono tante varianti di quest’idea, che sta in giro da tempo immemore, alcune sono più valide e altre meno. Se volete un’introduzione sul tema (è un po’ tostina, ma è il testo migliore disponibile in italiano) potete leggere il libro di Andrea Zhok, Emergentismo. Sì, Zhok quando non va in televisione a parlare di cose che non sa e sparare cagate scrive dei libri interessanti nei suoi campi (ogni tanto fa man bassa di altri autori, ma comunque non sono male).

***Il concetto di teleonomia è trattata estesamente in un saggio che porterò sicuramente in futuro perché splendido, ossia Il Caso e la Necessità di Jacques Monod. In soldoni, è l’idea per cui la struttura dei sistemi biologici mostri una tendenza emergente a svolgere delle funzioni e realizzare dei “fini”, ma non perché questi fini siano stati assegnati da qualche disegno o progettatore intelligente (come volevano le tesi teleologiche della nostra tradizione), quanto per via dei processi di selezione naturale che favoriscono degli “accoppiamenti” tra molecole/strutture/comportamenti e i risultati che producono in un ambiente ecologico. È un concetto un po’ tosto e spesso frainteso, vedasi l’Intelligent Design, perché apparentemente molto controintuitivo.

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Re: I Saggi del Cuore: letture e idee che lasciano un segno

Messaggio da Inklings »

22/52

Continuiamo il ciclo "neuroscienze e coscienza" con un gigante della disciplina.

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Antonio Damasio è un neuroscienziato e professore presso l'Università della California, nonché il direttore dell'Istituto del Cervello e della Creatività presso la stessa università. È considerato uno dei più importanti esperti al mondo nel campo delle neuroscienze cognitive, avendo dedicato gran parte della sua carriera allo studio dei meccanismi neurali alla base delle emozioni e dei processi decisionali. Le sue ricerche hanno contribuito in modo significativo alla comprensione del ruolo delle emozioni nel processo decisionale umano e hanno evidenziato l'importanza delle emozioni nell'elaborazione delle informazioni cognitive. E' salito alla ribalta con la pubblicazione del bestseller L'errore di Cartesio, dove sfidò la divisione tradizionale tra ragione e sentimento offrendo uno dei suoi contributi più noti, il concetto di "marcatori somatici": secondo Damasio, le emozioni e le sensazioni corporee associate a determinate esperienze possono fornire un "marcatore" che influisce sulle decisioni future, aiutando a valutare le conseguenze possibili e guidando il comportamento razionale.* In questa sede non parlerò di questo libro (che comunque è un classico che consiglio vivamente) ma di un testo più recente che mi ha colpito trattando una tematica più complessa e sfuggente: il problema del sé, affrontato sempre attraverso la lente degli studi neurobiologici e clinici (ma non mancano continui confronti critici con autori quali Descartes, Spinoza, Hume, James).

Secondo il libro, il concetto di sé si riferisce all'esperienza soggettiva di un'identità individuale e alla consapevolezza di essere un individuo distinto dagli altri. Damasio sostiene che il senso di sé sia un prodotto dell'attività del cervello e delle interazioni complesse tra diverse regioni cerebrali. La costruzione del sé coinvolge processi neurali che includono la percezione delle sensazioni corporee, l'elaborazione delle emozioni, la memoria e le rappresentazioni neurali. Un aspetto chiave del concetto è la continuità temporale: il senso di sé si sviluppa attraverso la memoria, che consente di conservare le esperienze passate e di collegarle all'identità personale e contribuisce alla formazione di una narrazione coerente che lega il passato, il presente e il futuro in un'identità continua In questo processo, le emozioni giocano un ruolo fondamentale fornendo una valutazione immediata delle esperienze. Le emozioni contribuiscono a dare un significato personale alle esperienze e aiutano a creare una traccia emotiva che influisce sulla formazione del senso di sé, di concerto con il monitoraggio delle sensazioni corporee - come la fame, il dolore o la sete - che contribuiscono al senso di un corpo individuale e alla consapevolezza di essere un soggetto fisico.

«Un sé esiste davvero, tuttavia si tratta di un processo, non di una cosa».** Un processo in continuo cambiamento tanto a livello dello sviluppo individuale, quanto in quello dell'evoluzione naturale. Un aspetto interessante della trattazione, infatti, è che secondo Damasio la coscienza e il sé non sono fenomeni esclusivi della specie umana. Certo, secondo l'autore questi processi assumono in noi un’organizzazione e un "raffinamento" sconosciuto al resto del mondo animale, non solo perché abbiamo sviluppato enormemente alcune delle condizioni che abbiamo considerato necessarie per l’emergere di questi fenomeni (come attenzione e memoria), ma anche perché la nostra specie è stata sottoposta ad una serie di cambiamenti evolutivi, tanto naturali (posizione eretta, ingrandimento del cranio, manualità, etc.) quanto culturali e sociali (organizzazione in gruppi cooperativi, comunicazione simbolica, utilizzo di strumenti, etc.), assolutamente unici nella storia della vita e fondamentali per lo sviluppo del nostro cervello e della nostra specifica esperienza mentale. Tuttavia, tutte queste capacità sono radicate all’interno di una storia evolutiva resa possibile da una serie di tappe pregresse comuni a moltissime specie animali, che sono da considerare a tutti gli effetti organismi dotati di forme di coscienza e di sé, per quanto diverse rispetto alle nostre.***

Damasio distingue a questo proposito tra un "proto-sè", un "sé nucleare" e un "sè autobiografico". Nelle prime fasi evolutive, gli "oggetti esterni" sono presenti nell’esperienza interna in un senso ancora percettivamente confuso, sono sentiti come minacce, opportunità eccitanti, pericoli. La modalità di rapporto con il mondo, in queste fasi, non ha a che vedere con la costruzione di una scena percettiva cosciente, ma piuttosto con una sorta di salienza immediata dello stimolo connotata affettivamente e strettamente legata a pattern d’azione. Non è ancora presente una memoria di lavoro e un focus continuato che mantengano la scena percettiva abbastanza a lungo e in modo abbastanza raffinato da poterne cogliere i dettagli, non è ancora arrivata una capacità in grado di legare le esperienze passate a quelle presenti in un unico racconto coerente. Tuttavia, questa modalità fornisce la piattaforma tanto per le nuove associazioni e l’apprendimento condizionato che si realizzeranno prima con l’avvento delle strutture limbiche, quanto per lo sviluppo di mappature esterocettive più dettagliate, grazie successivamente alla corteccia sensoriale. Col tempo gli oggetti presentati al sé nucleare avranno un aspetto più chiaro rispetto alla prospettiva dell’organismo, verranno definiti maggiormente, potranno diventare preminenti per un periodo più lungo ed essere richiamati alla memoria, costituendo così stimoli per opportunità e azioni più variegate. In un secondo momento, i vari “battiti di esperienza” così costituiti potranno diventare le scene di un unico film in cui l’organismo recita il ruolo del protagonista, un’unica narrazione sorretta dalla connessione mnemonica dei ricordi (anch’essi affettivamente connotati) e coadiuvata da alcune capacità acquisite per via culturale, come il linguaggio. È qui che potremo cominciare a parlare dei "centri di gravità narrativa"****, o "sé autobiografici", che caratterizzano l’esperienza di Homo sapiens.

Quale punto possiamo trarre dagli studi neurobiologici di Damasio? Credo che l’aspetto più interessante sia il fatto che il modo tradizionale di pensare la cognizione risulta ribaltato. Ciò che solitamente viene interpretato secondario o accessorio per la coscienza e il ragionamento, ossia la dimensione del corpo e degli affetti, è invece evolutivamente primario e fondativo rispetto ad essi. Noi siamo innanzitutto vivi, affettivamente vivi. Siamo dotati di un corpo sentito come pulsante e in azione. Questo aspetto lo condividiamo con la maggioranza delle specie animali, probabilmente tutte quelle dotate di forme anche estremamente grezze di sistemi nervosi. È solo a partire da questo fatto fondamentale, l’esperienza di sé come corpo vivente, in azione e in relazione ad un mondo sentito e valutato a partire dalle nostre prospettive incarnate, che possiamo rendere conto delle funzioni "superiori" delle nostre menti cognitivamente coscienti.

Spoiler:
*Negli anni il concetto ha subito alcune critiche, ma l'idea fondamentale che le emozioni forniscano un'intuizione fondamentale e preriflessiva alle decisioni razionali è abbastanza accettata (per esempio, il premio Nobel Daniel Kahneman ha sviluppato un'idea simile con la distinzione tra Sistema 1 e Sistema 2, cui si fa riferimento nel bestseller Pensieri lenti e veloci. Fun fact, altri neuroscienziati e neuroeticisti, come Joshua Greene, hanno osservato che l'attivazione tra circuiti cerebrali maggiormente legati a processi emotivi (es. sistema limbico) si associ a decisioni associabili a un'etica deontologica, mentre quelli tradizionalmente legati alla pianificazione razionale (es. corteccia prefrontale) a scelte utilitaristiche. Risultati molto interessanti, che comunque non devono indurci ad alcuna specifica prescrizione etica.
**Cit. p. 19.
***Una frase (penso di averla letta una volta in un libro di Marchesini) che mi piace usare in questi casi suona più o meno così: "Per carità, grazie all'evoluzione siamo specifici quanto vogliamo, ma non speciali".
**** Espressione del filosofo Dan Dennett.
Ultima modifica di Inklings il 30/05/2023, 14:23, modificato 1 volta in totale.

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Re: I Saggi del Cuore: letture e idee che lasciano un segno

Messaggio da Hard Is Ono »

Passo solo per dire che sto rileggendo Ontogenesi e filogenesi di Gould, sperando così che Inklings mantenga un minimo di stima per me.

Che ne pensi di Pievani invece? Ho letto Imperfezione. Una storia naturale e l'ho molto apprezzato.

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Re: I Saggi del Cuore: letture e idee che lasciano un segno

Messaggio da Inklings »

Hard Is Ono ha scritto: 27/05/2023, 11:33 Passo solo per dire che sto rileggendo Ontogenesi e filogenesi di Gould, sperando così che Inklings mantenga un minimo di stima per me.

Che ne pensi di Pievani invece? Ho letto Imperfezione. Una storia naturale e l'ho molto apprezzato.
La stima non è mai andata via Hard :love:
Tra l'altro quel libro di Gould ce l'ho in readlist da anni (ma devo ancora mettermi serio a leggere il suo La struttura della teoria dell'evoluzione che mi hanno regalato due anni fa... non lo finirò mai :triste: ), quindi solo rispetto.

Pievani io lo apprezzo molto come scrittore e divulgatore, ha scritto roba anche abbastanza originale e ne sa a pacchi sulla teoria dell'evoluzione e sulla paleoantropologia. Ogni tanto ha tirato fuori robetta commerciale così così e mi fa un po' cringiare quando fa delle battutine a tema politico, ma nel suo campo è bravissimo. Poi c'ho anche avuto a che fare sia in contesti formali (mi ha dato consigli su un articolo che ho scritto), sia informali (dopo un incontro abbiamo chiacchierato un attimo del più e del meno perché ho studiato presso un suo allievo). Lo trovo una persona molto disponibile, alla mano e aperta al dialogo.

Il libro in questione l'ho trovato molto bellino, tratta un tema spesso bistrattato dalla "tavola alta" della biologia evoluzionistica con molta ironia e arguzia. Nel caso ti interessi ti consiglio assolutamente La vita inaspettata, che per me è il suo più bello e ha una prospettiva molto interessante sull'evoluzione e il tema del "caso". Anche Nati per credere con Vallortigara e Girotto, sull'origine evolutiva dei sistemi di credenze, è molto interessante (penso di portarlo in futuro). Poi ci sono robe più tecniche (su Darwin, sintesi estesa e teoria gerarchica) che sono molto validi ma un po' da addetti ai lavori.

Il resto come detto è una roba più commerciale e non è così interessante. Però tra i recenti segnalo anche Finitudine, che tratta di incontro romanzato tra Camus e Monod (se uno è fan dell'esistenzialismo ci sta) e Serendipità (che se ti è piaciuto Imperfezione dovresti apprezzarlo).
E vabbè, ci sono alcune sue conferenze online che mi ascoltavo abbastanza spesso durante il lavoro, anche come oratore performa molto bene, se interessa ne posto alcune che mi sono particolarmente piaciute.

EDIT: ora che mi ricordo anche il libro-dialogo con Carlo Sini sul tema della cultura non l'avevo trovato male, ma forse più per una mia sindrome di Stoccolma per ogni roba scritta/detta da Sini in ambito accademico :ooops:

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