I Saggi del Cuore: letture e idee che lasciano un segno

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Hard Is Ono
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Re: I Saggi del Cuore: letture e idee che lasciano un segno

Messaggio da Hard Is Ono »

Non lo so, a me non convince.

Inoltre c'è un passaggio che proprio mi è spiaciuto nella tua sintesi, quando suggerisci che la perturbazione che mette in difficoltà "Gaia" siamo noi e le nostre tecnologie, affermazione che trovo (forse involontariamente?) di un antropocentrismo (per non usare parole molto più brutte) insopportabile e a cui penso sia sufficiente mezza battuta di George Carlin per rispondere.

Anche il ragionamento che segue non mi convince. Intanto il fatto che noi passeremo e che non ci saremo, per dirla coi Nomadi, prima lo accettiamo e meglio è.

Ma ancora peggio l'idea che una visione responsabilizzante del nostro rapporto col pianeta possa avere un qualche effetto non solo è naif, ma è anche fuorviante rispetto agli stessi problemi che abbiamo rispetto all'impiego delle tecnologie e all'inquinamento che sono sicuramente reali. Problemi però che hanno cause specifiche, molto più ristrette e meno cosmiche, e che non possono essere risolte con mumbojumbo vari sul diventare la coscienza del pianeta, ma solo prendendo a calci tutti i Karl del mondo che pensano che il profitto sia l'unico motore del progresso e dell'innovazione.



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Inklings
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Re: I Saggi del Cuore: letture e idee che lasciano un segno

Messaggio da Inklings »

Boh Hard, la tua critica la comprendo e condivido parzialmente, ma non capisco perché mirarla verso uno scienziato che si è limitato (nel 79, non l’altro ieri) a esporre problemi globali a partire dal suo campo di studi. Che le nostre tecnologie costituiscano un motivo di destabilizzazione ambientale è un fatto scientifico incontestabile, e lo sarebbero anche indipendentemente dal sistema economico in cui ci troviamo oggi. Che si tratti di utilizzo di combustibili fossili, bioaccumulo di pesticidi (Primavera silenziosa della Carson fu illuminante in questo), cfc che impattano sull’ozonosfera e molto altro, si tratta di tecnologie impattanti che si sarebbero diffuse, avrebbero influito e prodotto danno in qualsiasi contesto socio-economico. Chiaro che quello capitalistico attuale con la sua logica di profitto continuo e progressivo è il peggiore di tutti e pensare di affrontare delle sfide globali mantenendolo è folle e sconsiderato, per usare un eufemismo.

Nessuno ha mai detto che l’instaurarsi di una coscienza ambientale collettiva sia una soluzione, ma un atteggiamento indispensabile per affrontare sfide globali, riconosciuta da coloro che propongono una decrescita, dai movimenti dell’ecologia profonda o dai sostenitori dello sviluppo sostenibile da Bruntland in poi. Così come deve essere riconosciuta la specificità delle varie situazioni politiche e ambientali dei paesi in via di sviluppo e di quelli più industrializzati, ma anche questo era già chiaro in Our Common Future.
Quindi no, la coscienza globale non è sicuramente e certamente sufficiente né efficace di per sé, ma è una condizione necessaria almeno per quelli che dovranno prendere le decisioni più difficili in futuro.

In secondo luogo, non è per una qualche mania eccentrica che in geologia ed ecologia si parla sempre più spesso di Antropocene, perché il pianeta (suolo, atmosfera, mari, minerali, biodiversità) è in un trend di stress ecologico paragonabile a un evento di estinzione di massa che è avvenuto 55 milioni di anni fa. Solo che quest’ultimo è avvenuto nel corso di milioni di anni, il nostro in centinaia. Riconoscerlo non significa essere antropocentrici, ma rendersi conto che lo stress a cui sottoponiamo il pianeta avrà effetti devastanti principalmente su di noi e su animali più complessi che stiamo già trascinando con noi (poi io personalmente sono più biocentrico e mi interesserebbe salvaguardare gli ecosistemi indipendentemente da motivi più utilitaristici).

Sono d’accordo che dovremmo accettare la nostra inevitabile fine come specie, ci mancherebbe. Se non sarà nelle prossime centinaia di anni per inquinamento o crisi ecologiche rapide, probabilmente sarà entro 50000 per l’avvenire di una nuova glaciazione, entro 100000 per l’attività di un megavulcano o entro qualche milione per asteroidi grandi come quello che ha estinto i dinosauri. Certo, a meno che non si sviluppino anche tecnologie adeguate e organizzazioni sovranazionali in grado di usarle per l’interesse globale.

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Hard Is Ono
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Re: I Saggi del Cuore: letture e idee che lasciano un segno

Messaggio da Hard Is Ono »

Già coscienza collettiva è un'espressione più comprensibile di "coscienza di sé del pianeta", che per me rimane un mumbojumbo che non significa niente. Però già dopo diventa coscienza globale.

A questo punto una domanda poi chiudo sull'argomento: queste espressioni sono sinonimi per te? Che intendi di preciso? Perché non si capisce e tutto quello che arriva a me è una idea al limite del positivismo alla Flores d'Arcais per cui i problemi dell'umanità e della Terra si risolveranno seguendo la saggia guida di Lisa Simpson, l'Uomo fumetti, Skinner e il resto delle teste d'uovo. Un'idea che non mi sogno neanche di definire utopistica, perché le utopie sono belle, mentre qui (in Flore d'Arcais dico, non so se anche te la condividi) c'è solamente l'ingenuità profonda tipica del mondo accademico.

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Colt877
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Re: I Saggi del Cuore: letture e idee che lasciano un segno

Messaggio da Colt877 »

Prendo il gancio offertomi da questo saggio per allargare la discussione a un campo che spesso offre spunti interessanti per tutto ciò che è presentato in forma di ipotesi: la fantascienza.

Nel suo "l'orlo della Fondazione", pubblicato nel 1982, Asimov decise di riprendere in uno dei "personaggi" questo saggio di Lovelock e il concetto di Superorganismo, rendendo la scoperta di Gaia, un pianeta vivente, uno dei principali snodi della trama. Approfitto dello schema Inklings per mettere sotto spoiler alcune considerazioni pregresse sulla storia del ciclo, in cui poi andrà ad inserirsi il pianeta Gaia.
Spoiler:
Senza risalire troppo indietro nel tempo visto che ci sono cicli antecedenti quello della Fondazione che però si sviluppano nello stesso Universo narrativo, abbiamo un Impero galattico morente a causa dell'adorazione del passato, del deterioramento intellettivo e della stasi scientifica. Uno studioso, Hari Seldon, scopre(si appurerà poi grazie all'aiuto di un robot, R. Daneel Olivaw) una nuova scienza immaginaria, la psicostoria, in grado di prevedere lo sviluppo della società umana. Per usare le parole di Asimov: La psicostoriografia è la quintessenza della sociologia; era la scienza del comportamento umano ridotto ad equazioni matematiche.

Nell'epoca in cui vive Seldon, comunque, tutti gli studi psicostorici dimostrano che si è superato il punto di non ritorno: è impossibile salvare l'impero galattico; l'unica alternativa praticabile è la riduzione da trentamila a soli mille anni di durata dell'epoca di barbarie che intercorrerà tra la caduta dell'attuale impero e la nascita di un nuovo impero galattico. Per farlo però è necessario costituire due Fondazioni indipendenti di cui una, la Prima, dovrà per sempre ignorare l'esistenza dell'altra, la Seconda. Tali Fondazioni al termine dei mille anni daranno origine al nuovo Impero. Questa è la genesi del Piano Seldon.

Nel corso dei libri ci sono molte deviazioni rispetto a quello che era il Piano, fatto di crisi periodiche prestabilite che la Prima Fondazione avrebbe dovuto affrontare sotto la supervisione attenta degli agenti della Seconda, soprattutto a causa dell'interferenza di un essere mutante: il Mulo. Questo essere avendo facoltà mentali capaci di manipolare gli altri individui fino ad indurli alla sua completa adorazione manda all'aria buona parte del piano della Seconda Fondazione(che continua ad aggiornare l'originario Piano Seldon per adeguarlo alle più piccole variazioni che si presentano), obbligando quest'ultima a rivelarsi direttamente per evitare che il Mulo conquisti l'intera Galassia e soprattutto che scopra la locazione della Seconda Fondazione.

Alla fine del libro "Seconda Fondazione" il Mulo viene sconfitto e il Piano Seldon torna a funzionare, non fosse che adesso importanti esponenti della Prima Fondazione sono venuti a conoscenza dell'esistenza della Seconda e, soprattutto, delle finalità del Piano Seldon: mentre la Prima Fondazione avrebbe preservato la scienza e la tecnologia, la Seconda con poteri mentali simili a quelli del Mulo avrebbe poi assunto la guida del nuovo Impero Galattico. Inizia così una missione segreta da parte di agenti della Prima Fondazione per scoprire anch'essi, come aveva cercato invano di fare il Mulo, l'ubicazione della Seconda Fondazione. Si finirà per scoprire che il perfetto funzionamento del Piano Seldon non era frutto di uno studio attento, ma della supervisione di qualcosa di molto più potente e antico che stava indirizzando la storia verso un certo fine: Gaia.
Gaia era un pianeta colonizzato in tempi antichissimi dagli Spaziali e non aveva mai fatto parte dell'Impero Galattico, senza mai intrattenere eccessivi scambi commerciali con altri pianeti. Un pianeta come tanti altri nella Galassia senza una particolare storia da raccontare, almeno apparentemente. In realtà quella di Gaia è soltanto una copertura, visto che gli abitanti di questo pianeta, "educati" in tempi antichissimi dai robot ad utilizzare i poteri mentali, hanno poi deciso di estendere questo potere anche sugli animali, sulle piante, sulle rocce fino all'intero pianeta. A lungo andare Gaia ha finito per diventare un superorganismo con i suoi abitanti che arrivano a perdere parte della loro individualità nel processo. Tenete presente che i gaiani si rivolgevano a sé stessi dicendo: Io/Noi/Gaia per indicare l'essere un tutt'uno col loro pianeta come una cellula consapevole di essere parte di un organismo complesso. Anche qui altro spoiler per un breve passo tratto proprio dal libro che descrive Gaia meglio di mille mie parole.
Spoiler:
Trevize(il protagonista, uomo della Prima Fondazione) era circondato dalla mitezza di Gaia. La temperatura era gradevole come sempre e l'aria si muoveva piacevolmente, fresca ma non gelida. Il cielo era solcato da nubi che di tanto in tanto velavano il sole e se il livello di vapore acqueo per metro di superficie fosse sceso troppo in un punto o nell'altro, senza dubbio sarebbe arrivata la pioggia necessaria a ripristinare l'umidità atmosferica.
Gli alberi crescevano a intervalli regolari come in un frutteto e crescevano così su tutto il pianeta. La terra e il mare erano forniti del giusto numero e della giusta varietà di forme di vita animale e vegetale, così da creare un equilibrio ecologico adeguato e la quantità di tutte queste forme di vita oscillava con variazioni minime, senza discostarsi mai troppo dall'optimum. Il che valeva anche per gli esseri umani.
Spettacolare. Non voglio addentrarmi nella trattazione sulla Gaia politica che spesso viene vista come la completa realizzazione dello stato comunista, cosa che esulerebbe molto dall'argomento in esame.

Mi limito solo a sottolineare in chiusura come la storia dei ciclo verta sulla possibilità di replicare un superorganismo come quello di Gaia all'intera Galassia, quindi una Galassia che sia viva e consapevole di tutte le parti di cui è composta, siano esse pianeti, stelle, asteroidi o esseri umani e altri animali, piante e organismi viventi che ne fanno parte. Una Galassia viva, tendente all'optimum e bilanciata come meglio possibile in ogni sua parte. Asimov quindi stressa molto la parte fantascientifica però, a modo suo, amplia anche gli orizzonti di Lovelock da un pianeta alla Galassia.

Venendo al saggio, questo, a differenza del primo, lo avevo già letto proprio grazie alla curiosità che aveva suscitato in me il personaggio di Gaia nel Ciclo delle Fondazioni di Asimov a conferma, ancora una volta, di come un'ottima fantascienza possa essere anche un volano per la diffusione di conoscenze scientifiche a larghi strati di popolazione che altrimenti ne resterebbero all'oscuro semplicemente perché non inerenti al loro campo di studi.

Rinnovo comunque i miei complimenti a Inklings per il topic e per il secondo saggio scelto. Una vera pietra miliare.

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Re: I Saggi del Cuore: letture e idee che lasciano un segno

Messaggio da Inklings »

@Hard Is Ono

Mmh, capisco, effettivamente è un punto interessante. Probabilmente non sono stato abbastanza chiaro io e mi scuso se ho fatto un passo di troppo.
Per me sono due cose diverse, e una è una condizione necessaria ma non sufficiente dell’altra.

Lovelock nel testo si riferisce alla specie umana come un potenziale “sistema nervoso” di Gaia. Che significa riconoscersi parte di un sistema integrato legato da relazioni ecologiche ed evolutive complesse, dove le nostre azioni (di specie più che di individui) hanno potenziali ripercussioni su tutto e viceversa. In senso negativo, modificare l’uso delle tecnologie impattanti sul pianeta (ricordando che le due grandi battaglie vinte in questo campo sono sull’abolizione del DDT nei paesi industrializzati e dei CFC che danneggiavano l’ozonosfera), in senso positivo, utilizzare la tecnologia a fini globali come la preservazione e la difesa degli ecosistemi (prevenendo crisi ecologiche come impatti di asteroidi, cicli climatici, vulcanismo, etc.). In questo senso, penso intenda Lovelock, diventiamo la “coscienza” di Gaia. (Poi un individuo può farlo pure per i cavoli suoi, ma questo tipo di consapevolezza individuale rischia di essere fine a sé stessa se non è condivisa, imho).

Per fare questo e agire in questo senso, però, servirebbe una coscienza collettiva di specie, che permetta cioè di affrontare le sfide ecologiche al di là e sopra le differenze e divisioni nazionali (senza però negarne le caratteristiche specifiche). Lovelock non parla di questo, ma mi sembra sia una condizione necessaria perché lui parla di azioni come specie umana. Cioè dobbiamo iniziare a “ragionare come un un’unica specie”, in un’unità di intenti e azioni collettive.

Attenzione, Lovelock non dice nulla di particolare su questo, la sua rimane una analisi scientifica che “invoca” una presa di posizione etica senza specificarla. Questo se vogliamo é più un tema sviscerato da report come I limiti dello sviluppo e il rapporto Bruntland, che analizzano la situazione parlando più di questioni di politica internazionale, divisione di ruoli tra paesi in via di sviluppo e industrializzati, etc., riconoscendo come il nostro sistema economico attuale, se continua in questa direzione, è destinato al collasso (ma comunque rimangono su un’idea di “sviluppo” su cui sono personalmente scettico).

La metterei così.
Immagino che Lovelock, da ecologo, avesse una visione allargata della propria identità che passava per il riconoscimento di essere parte di Gaia (qualcosa che il filosofo Arne Naess ha chiamato “sé ecologico”). Desiderava che ciò venisse condiviso da tutti e pensava che una volta assunto a livello collettivo come specie ci permetterebbe di agire pienamente nel rispetto e per la preservazioni nel pianeta. A questo mi riferivo con “coscienza globale”.
Io, da lettore, dico che questa cosa è sicuramente bella e condivisibile, ma perché avvenga serve innanzitutto una coscienza come specie che ci permetta di agire al di là di particolarismi, nazionalismi e interessi privati. A questo mi riferivo con “coscienza collettiva (di Homo sapiens)”. Non è un passo sufficiente di per sé, ma è fondamentale per poter affrontare le sfide ecologiche future. Per me è fondamentale anche quella di cui parla Lovelock, perché mi sembra un ottimo spunto per una prospettiva incentrata non soltanto alla preservazione della nostra specie, ma anche agli ecosistemi e agli altri organismi per quanto possibile, indipendentemente dall’utile che questo potrebbe avere per noi ( non mi aspetto che questo sia condiviso).
Ultima modifica di Inklings il 06/01/2023, 19:48, modificato 1 volta in totale.

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Re: I Saggi del Cuore: letture e idee che lasciano un segno

Messaggio da Inklings »

CombatZoneWrestling ha scritto: 06/01/2023, 16:20 Bellissimo riassunto di un saggio epocale.
Spesso vengo visto, anche e soprattutto tra i miei amici, come antagonista delle teorie ecologiste e tutto, ma non è esattamente così. Sono sicuro che abbiamo, come genere umano, contribuito ad un processo di disequilibrio che porterà seri problemi nei prossimi anni, ma questi processi sono, come dice lo stesso Lovelock, fisiologici nell’evoluzione della vita sulla terra, e che oltre all’attività interna sono influenzati, talvolta, da eventi esterni (i cicli solari di cui spesso si parla, che hanno portato a tanti cambiamenti climatici nel corso dei secoli). Questa è la base da cui tutti partiamo, no?
La cosa che critico è l’ideologia della “soluzione breve” che tanto è comune in questi anni. Siamo arrivati ad un punto in cui ci illudiamo di invertire dei trend che vanno avanti da secoli (scritto sopra, dalla rivoluzione industriale) in 10/20/30 anni… come se l’uomo, dopo secoli di filosofia opposta a questa convinzione, fosse tornato onnipotente e unico centro dell’universo. Dobbiamo comprendere che, realisticamente, “un’inversione di rotta” sia impossibile (così funzionano i sistemi fisici-naturali, no?), mentre si può limitare i danni e porre le basi, riducendo comportamenti distruttivi, al cambiamento reale quando, nell’equilibrio delle cose, questo sarà concesso. La MIA convinzione, che può essere chiaramente errata come no, è che se anche l’uomo tornasse all’età della pietra in un giorno, i miglioramenti auspicati (che sento e vedo in un qualsiasi media ogni giorno) e talvolta promessi non ci sarebbero, dato che viviamo in “un unico Superorganismo avente processi (e “comportamenti”) emergenti rispetto alle sue parti” e non una scatola bianca, un modello fisico perfetto che riporta tutto all’equilibrio in un istante.
Poi ci sarebbe da ragionare anche sul concetto stesso di equilibrio terrestre stesso, è un po’ pretestuoso pensare che l’equilibrio perfetto sia quello raggiunto pre rivoluzione industriale… magari da una prospettiva antropocentrica, ma non possiamo chiaramente dimostrare che quella fosse, per il pianeta, una situazione migliore rispetto a quella delle glaciazioni o, più vicino a noi, ai circa 2.5 gradi e mezzo in più di 1000 anni fa circa.
Insomma, c’è tantissima carne al fuoco (letteralmente) e ne vorrei discutere molto a lungo, ma mi manca il tempo… scusate se ho fatto errori nel testo ma ho scritto da cellulare.
Ho visto solo ora il commento, sorry!

Parte del problema è che noi siamo abituati a pensare in un ottica temporale infinitesimale rispetto al tempo della Terra. L’abbiamo calcata per un tempo brevissimo (200000 anno ca.) e facciamo fatica a ragionare e tenere contro dell’enormità e continuità dei processi geologici e climatici che hanno permesso l’evolversi della nostra specie. Alcuni di questi sono fisiologici e torneranno nelle prossime migliaia/decine di migliaia/centinaia di migliaia di anni (effetti Serra concentrati, glaciazioni, megavulcanismo, asteroidi), è il ciclo inesorabile delle specie. Dopotutto più del 99% delle specie mai vissute si è estinto, perché dovrebbe essere diverso per noi?

Le soluzioni a lungo termine ci spaventano, non riusciamo a immaginarle e in fondo pensiamo che non sarà un problema nostro. Intanto però stiamo impattando comunque sul nostro mondo in modo costante e gli effetti iniziano a farsi vedere. Nei prossimi centocinquanta anni i combustibili fossili potrebbe essere esauriti e probabilmente i loro prezzi continueranno ad aumentare fino al loro esaurimento. Nei prossimi decenni, avevo letto in un articolo (se riesco cerco di ripescarlo), si stima che centinaia di milioni di persone migreranno dal sud del mondo, maggiormente colpito dai cambiamenti climatici. Non riusciamo neanche a immaginare cosa potrebbe comportare da un punto di vista ecosistemico la perdita di biodiversità a cui stiamo andando incontro. Più in là nel tempo, l’aumento del livello dei mari comporterà un abbandono cospicui di tutte le maggiori città costiere.

Tutti problemi in cui ecologia e sviluppo si intrecciano irrimediabilmente, in cui è evidente che ci saranno ricadute economiche e sociali devastanti con cui fare i conti. Io penso che il testo di Lovelock non sia l’offerta di una soluzione facile, ma un avvertimento di maggiore consapevolezza. Consapevolezza che siamo qui grazie a un equilibrio fragile e delicato formatosi molto prima che fossimo qui e che durerà dopo di noi. Consapevolezza che turbare questo equilibrio comporta delle inevitabili conseguenze. E
soprattutto consapevolezza (fatta propria dall’ecologia) che non si possono affrontare i problemi in modo settoriale, ma avendo piuttosto una visione di insieme ampia sia nello spazio che nel tempo, perché ogni soluzione (o meglio le molte soluzioni) dovranno tener conti di moltissime variabili, di tante discipline e di un lungo tempo di attuazione (mentre il tempo a disposizione è sempre meno).
Ultima modifica di Inklings il 06/01/2023, 19:18, modificato 1 volta in totale.

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Re: I Saggi del Cuore: letture e idee che lasciano un segno

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@Colt

La Fondazione di Asimov devo recuperarla assolutamente, l’anno scorso finalmente ho letto “Tutti i miei Robot”. E niente, tanta roba :godimento:

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Re: I Saggi del Cuore: letture e idee che lasciano un segno

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Faccio oggi che domani sto in ufficio e nel weekend sarò un po' impegnato.

3/52

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Il saggio di questa settimana è una lettura recentissima che mi ha colpito molto per l’approccio esteso ma al tempo stesso abbastanza accessibile (dico abbastanza, perché rimane comunque una lettura non scontata in alcuni punti, per quanto semplificata). Robert Hazen è un mineralogista e astrobiologo eclettico, che spazia dallo studio dei minerali a problemi di abiogenesi (origine della vita).

L’aspetto singolare delle sue ricerche è il tentativo di applicare un approccio storico ed evolutivo allo studio della geologia e della mineralogia. L'autore è uno dei propositori della teoria dell’Evoluzione Minerale: sintetizzando, le rocce hanno subito processi di diversificazione e complessificazione a partire dall'origine del Sistema Solare. L’aspetto interessante, secondo Hazen, è che gran parte di questi processi siano dovuti all’interazione con le forme di vita della Terra: prima della sua comparsa i minerali ammontavano solo a qualche centinaio, rispetto agli oltre 5000 “specie” attuali (!)*. Un ottimo esempio di come l’approccio genealogico sviluppato da Darwin possa avere effetti profondi anche in altre branche della ricerca scientifica, aiutandoci a porre nuove domande e ad ampliare la nostra conoscenza.*

Venendo al libro, si tratta di una ricostruzione della storia della Terra dalla prospettiva dei minerali e degli elementi che li compongono. A partire dal Big Bang, l’autore ripercorre questo tempo cosmico incredibilmente vasto che non può che mettere una certa soggezione. Si passa dal Big Bang all’origine delle stelle***, al Sistema Solare, alla formazione della Luna, degli oceani e della crosta terrestre, alla vita, alla fotosintesi, etc. Qui hanno un ruolo fondamentale i processi come la tettonica delle placche, la deriva dei continenti, gli eventi ossidativi, che vengono tutti spiegati (in modo approfondito ma non proibitivo) facendo riferimento sia a cause prossime sia ad eventi storici remoti.

Un progetto molto ambizioso, ma che aiuta a comprendere dinamiche che stanno avvenendo oggi e che avverranno nel futuro prossimo e remoto (interessante in questo senso l’ultimo capitolo sul futuro climatico e geologico del pianeta Terra). Oltre a questo, è interessante il tentativo di colmare l’apparente distanza nelle nostre considerazioni sulla materia inorganica e la vita. La storia dell’Universo può essere vista come una trasformazione continua della materia di cui noi costituiamo una piccolissima e recentissima parte (per quanto rilevante e complessa); una storia in cui, minerali e organismi dalla comparsa hanno interagito instaurando relazioni intricate e continue. Davvero notevoli il primo capitolo (sulle fasi più antiche dell’universo), quello sull’origine della vita (in cui viene proposto un ruolo fondamentale svolto dai minerali) e quello sui processi oscillanti da glaciazioni a effetti serra amplificati (qui si possono vedere alcuni dei processi di feedback esposti da Lovelock nel libro della settimana scorsa).

Lettura non facilissima, ma comunque estremamente valida e affascinante. Nota negativa: la mancanza di illustrazioni, che rende l’immaginazione di questi processi complessi abbastanza difficile, soprattutto i capitoli sulla formazione della crosta basaltica e le formazioni dei supercontinenti. Consiglio di integrare con animazioni online.

NOTE PER GLI AVVENTUROSI:
Spoiler:
*Hazen racconta come l’ispirazione per lo sviluppo del suo ambito di ricerca sia venuto da una domanda di un suo collega ricercatore ad un party a meta dei ‘00, che gli chiese se sapeva se esistesse già un certo minerale nel periodo che stava studiando. Hazen non ricordava di aver mai sentito o letto da nessuna parte una domanda simile rispetto allo studio dei minerali. Da quel momento inizierà a ripensare alla propria disciplina in un senso storico.
**uno dei processi più semplici alla base di questa diversificazione nel tempo sono i processi di ossido-riduzione. L’ossigeno tende ad accettare una coppia di elettroni per raggiungere la stabilità, ad esempio sottraendoli ai minerali con cui entra in contatto. A seguito dell’aumento della concentrazione dell’ossigeno dovuto alla comparsa di organismi fotosintetici (prima batteri, poi piante), questo avrebbe provocato delle reazioni prima con gli strati superficiali (rendendo per un certo periodo la nostra Terra rossa come suo “fratello” Marte), poi attraverso l’acqua che circola nelle falde anche più in profondità. La diffusione di questi minerali negli oceani avrebbe poi costituito a delle modifiche favorevoli per la vita diffondendo degli elementi fondamentali per alcuni processi biologici (e così anche sulla terraferma, dove la diffusione delle piante avrebbe permesso col tempo la formazione del suolo a partire dall’iniziale strato roccioso).
***dalla fusione nucleare di questi giganteschi ammassi di idrogeno ed elio vengono a generarsi elementi sempre più pesanti fino al 26esimo della tavola periodica, il ferro. A seguito delle loro esplosioni questi elementi si diffondono in tutto l’universo, e costituiscono anche la base per la formazione dei pianeti rocciosi del Sistema Solare e dei primi minerali.
Prossima settimana porto una lettura più soft da parte di un autore abbastanza conosciuto. Tema: neurologia.

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Re: I Saggi del Cuore: letture e idee che lasciano un segno

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Salve! Sono Oliver Sacks. Forse mi ricorderete di me per alcuni miei libri come Vedere voci, un viaggio nel mondo dei sordi, e Zio Tungsteno – Ricordi di un’infanzia chimica... o più probabilmente, per la prestazione di Robin Williams e Robert De Niro in Risvegli*

Oliver Sacks è un noto neurologo e autore di best seller in cui racconta della sua attività medica concentrandosi sul rapporto personale instaurato con i suoi pazienti. È stato anche criticato per questo motivo e accusato da una parte di strumentalizzare tali pazienti per fare due spicci e presentarsi come buon samaritano, dall’altra di utilizzare un approccio poco scientifico e troppo personalista nel descrivere tali malattie, sacrificando l’oggettività del paper scientifico al sensazionalismo del racconto romanzato. Due critiche che in questa seda mi interessano poco, perché il motivo per cui ho deciso di portare questo saggio diverge da entrambe le questioni.

Il motivo per cui ho deciso di portare questa raccolta di brevi saggi, infatti, è proprio perché essa rappresenta un modo di raccontare la malattia abbastanza diverso da quello della letteratura scientifica sul tema. Di per sé quelli di Sacks – come riconosce lui stesso – sono descrizioni di casi clinici, una forma di narrazione medica in voga prima che la medicina si armasse di metodologie statistiche e di strumenti teorici più vicini al linguaggio delle scienze naturali, della chimica e della matematica. Insomma, una forma “vecchia”, poco scientifica e perlopiù ereditata dalla psicoanalisi (come sapranno i lettori di Freud)**, quindi comprensibilmente abbastanza invisa ai medici coevi di Sacks. Una raccolta di casi tra il 75 e l’84 più vicina al romanzo che al trattato di medicina che difficilmente troverebbero posto nelle riviste di oggi. Tuttavia Sacks sceglie di recuperare questa modalità di descrizione perché ritiene che essa permetta di raccontare un lato della malattia che i medici del suo tempo tendevano a dimenticare, e perché questa modalità potesse illuminare alcuni aspetti delle nostre esperienze mentali.

L’aspetto che rende il caso clinico così lontano dalla scienza medica sarebbe proprio la sua forza: la capacità di raccontare il particolare, la storia individuale di chi viene affetto da una patologia e la trasformazione che avviene nella sua visione del mondo. Sacks non si limita alla trattazione neurologica dei disturbi – che pure è presente e molto particolareggiata – ma cerca di raccontare anche il cambiamento nelle “esperienze interiori” dei pazienti con cui è entrato in rapporto. Da questo punto di vista, quello di Sacks può essere considerato un approccio a metà tra quello neurologico e quello fenomenologico.*** Questo approccio alla dimensione “qualitativa” e in prima persona della malattia, secondo Sacks, ci interroga su alcuni aspetti generali (e dati per scontato) della nostra coscienza. Come facciamo a riconoscere gli altri e il significato degli oggetti nella nostra quotidianità (saggio omonimo del libro)? Qual è il ruolo giocato dalla memoria nella costruzione della nostra identità (Il marinaio perduto)? Cosa significa avere un corpo e cosa succederebbe se smettessimo di “sentirlo” (La disincarnata)?**** In che modo la malattia o l’essere “sani” diventa parte della nostra personalità e della nostra visione del mondo (Ray dei mille tic)?

Una lettura consigliata sia per i curiosi di quell’agglomerato complesso nella nostra testa e dei suoi “malfunzionamenti” (anche partendo da zero), sia per chi fosse interessato a delle riflessioni aperte sulla natura dell’esperienza, della memoria, della corporeità, delle allucinazioni, etc. Il tutto viene raccontato, a mio avviso, con una delicatezza e una sensibilità molto toccanti, permettendo al lettore quasi di arrivare a conoscere i vari personaggi di queste bizzarre (e spesso tragiche) situazioni, di tenere a loro, di partecipare dei loro disagi e delle loro inaspettate vittorie, di aprire un piccolo spiraglio nella loro intimità per aiutarci a comprendere qualcosa di più di che cosa provino. E forse, anche a capire qualcosa di più di noi stessi.

NOTE PER GLI AVVENTUROSI:
Spoiler:
*I primi due purtroppo sono titoli veri (roba che non leggerò mai). Il film mi intriga un attimo giusto perché c’è De Niro, ma me ne hanno parlato abbastanza male.
** Fun fact: in uno degli ultimi libri di Sacks, Il Fiume della coscienza, c’è un bel saggio dedicato ai primi anni di studio di Freud, che forse non tutti sanno essere stato neurologo nelle sue prime ricerche (contribuì a scoperte importanti sul funzionamento e la struttura dei neuroni). In particolare si concentra su una delle sue prime opere, molto ambiziosa e giustamente incompiuta, che si proponeva di tracciare una teoria comprensiva delle patologie su base fisiologica (Progetto per una psicologia scientifica).
*** Termine che usa lui stesso, ma (così nessuno si spaventa) in un senso colloquiale. Cioè, non è che Sacks si metta ad analizzare le strutture fondamentali del vissuto tipo Husserl, ma cerca piuttosto di adottare la prospettiva in prima persona dei suoi pazienti per provare a comprendere cosa si provi ad avere una patologia di un certo tipo e come si possa “tradurre” in termini comuni all’esperienza di ciascuno di noi. Più che fenomenologia, si potrebbe parlare di “eterofenomenologia” (un’espressione coniata dal filosofo Dan Dennett, di cui porterò un saggio in futuro). Giudicate voi la legittimità di un simile approccio.
**** Questo saggio è il mio preferito. Sacks mi sta abbastanza simpatico anche perché tra le righe (ma anche esplicitamente) si legge un atteggiamento molto critico verso le visioni cognitiviste, modulari e computazionali della mente (di cui comunque vorrei portare roba in futuro, Turing e Von Neumann in primis) e un riconoscimento del carattere embodied dei processi cognitivi, cioè del ruolo giocato dalla corporeità nella nostra esperienza e nelle nostre modalità di pensiero (anche quelle più apparentemente astratte). Per dire che qui stiamo dalla stessa parte.
Prossima settimana non so ancora cosa portare. Pensavo comunque di presentare un saggio tra quelli che ritengo interessanti e meritevoli, ma che portano avanti idee con cui non sono (spesso per nulla) d'accordo.

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Inklings
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Re: I Saggi del Cuore: letture e idee che lasciano un segno

Messaggio da Inklings »

5/52
Il mese l'abbiamo portato a casa, daje.
Questa presentazione è un po’ più lunga, perché il tema meritava un po’ più attenzione e precisazione.

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Richard Dawkins è un personaggio abbastanza noto, principalmente per essere il più importante intellettuale affiliato al cosiddetto New Atheism, di cui non parlerò in questa sede.* Forse è meno conosciuta la carriera di Dawkins come etologo e autore di alcuni tra i più acuti testi di biologia evoluzionistica mai scritti: divulgatore brillante, Dawkins riesce nell’impresa ardua di combinare uno stile di scrittura raffinata, spiegazioni alla portata di un vasto pubblico e grande creatività concettuale, che fanno dei suoi testi sia degli ottimi entry level per chi voglia comprendere l’evoluzione (in particolare il bellissimo L’orologiaio cieco), sia degli spunti intellettuali che hanno stimolato fortemente lo sviluppo della disciplina nella seconda metà del secolo scorso.**

Il gene egoista (1976) è stato un saggio rivoluzionario a cui sono abbastanza legato. Da un punto di vista storico, quella di Dawkins è un’argomentazione che porta alle estreme conseguenze quella sintesi tra teoria darwiniana e genetica mendeliana sviluppata negli anni ’30-’40***, suggellata definitivamente dalla scoperta delle basi materiali dell’ereditarietà, il DNA, all’inizio dei ’50. Il testo può essere letto a come una storia della vita dalla prospettiva dei geni, che secondo l’autore britannico costituiscono i veri protagonisti dell’evoluzione. In un altro senso quindi, quello di Dawkins non è solo un ampliamento della teoria darwiniana, ma anche il tentativo di consolidare un cambio di paradigma nella disciplina in cui l’unità della selezione non siano più gli organismi, ma i loro geni visti come unità di informazione che “lottano” tra loro (tra le proprie versioni differenti, o alleli) per diffondersi nelle generazioni future.

Una precisazione sul termine “egoismo”, su cui sono state scritte negli anni alcune critiche a mio parere fuori misura. L’egoismo di cui parla l’autore non è un’intenzione o un desiderio dei geni, che altro non sono se non molecole in grado di trasmettere informazione e guidare lo sviluppo. I geni sono egoisti, afferma Dawkins, perché si tratta di replicatori il cui “comportamento” punta alla propria diffusione a scapito degli alleli alternativi e anche, a volte, a scapito dei corpi che li ospitano.**** Infatti per Dawkins i corpi non sono altro che veicoli dei geni, macchine che questi ultimi hanno sviluppato durante l’evoluzione come mezzo per favorire la propria diffusione e la propria discendenza.

Ovviamente i geni agiscono raramente da soli, ma nel corso dell’evoluzione hanno piuttosto formato delle “reti di alleanza” stabili – i cosiddetti pool genici delle specie – con i quali ogni nuova mutazioni deve costantemente fare i conti per poter trovare il proprio spazio e potersi diffondere (cosa che giustifica il procedere lento e graduale dei processi evolutivi). Il riferimento ai geni, come avevano già notato i genetisti delle popolazioni, permette inoltre di risolvere alcuni nodi gordiani delle precedenti teorie darwiniane, come ad esempio la selezione e diffusione di comportamenti cooperativi e altruismo.***** Negli anni Dawkins ha inoltre raffinato la propria visione, ad esempio in Il fenotipo esteso, dove anche la dimensione ecologica è ricondotta allo sviluppo di nuove modalità comportamentali dei geni, con la selezione di nuove forme di manipolazione ambientale risultate utili alla loro discendenza.

Capitolo a parte (in tutti i sensi) è dedicato a un’altra tesi portata avanti in questo testo, ossia l’ipotesi dei memi. Dawkins sviluppa il concetto di meme come un’unità di informazione culturale analoga a quella dei geni e trasmissibile attraverso molteplici mezzi. L’approccio memetico vede la cultura come un insieme di informazioni trasmissibili come “unità di imitazione” – corrispondenti fisicamente a specifiche rappresentazioni/attività di scarica neuronali – che possono essere trasmesse orizzontalmente tra gli individui. Una differenza adattiva per la vita del cervello che li ospita può costituire un discrimine nella loro diffusione: un buon metodo per cacciare sarà un meme selezionato perché aiuta il proprio ospite ad ottenere il cibo, ma lo stesso può valere per l’idea di “equità”, che garantisce una buona cooperazione sociale e permette l’integrazione dell’individuo all’interno del gruppo (raramente qualcuno vuole avere a che fare con gli “egoisti”). Il “pool memetico” sarebbe così un enorme contenitore di unità imitative che competono tra loro per guadagnare il proprio posto nel cervello di noi umani come gli alleli nel pool genico di una specie, formando nel contempo “alleanze” con altri alleli: un metodo di caccia compete contro un altro, così come due diverse idee di equità, le quali loro volta saranno associati ad altri memi compatibili e reciprocamente rinforzanti.

Al tempo stesso però, avverte Dawkins, quello dei memi può risultare anche un livello di trasmissione indipendente dal valore adattivo: un meme può emergere come vincitore e diffondersi per il semplice fatto di avere delle caratteristiche “accattivanti” per un cervello (brevità, facilità di essere ricordato, vantaggi immediati contro un danno maggiore nel lungo periodo, etc.) anche quando i comportamenti che ne derivano risultano indifferenti al miglioramento della fitness individuale o sociale, o addirittura contrari ad esse, visto che una volta che si siano evoluti capaci di imitare si evolveranno allora memi che sfruttano in pieno questa capacità. Tuttavia, secondo Dawkins, è proprio questa potenziale dissociabilità del meme dal livello genetico a costituire la dimensione liberatoria della cultura rispetto alla mera vita biologica. Infatti, mentre nella sua ottica gene-centrica i corpi viventi non sono altro che veicoli per la sopravvivenza differenziale del DNA, la formazione nel cervello umano di strutture corrispondenti a memi e rispettivi comportamenti permise di superare l’orizzonte ristretto della riproduzione per aprire la strada alla previsione conscia (al suo meme) e al conseguente «potere di andare contro ai nostri geni egoisti e, se necessario, ai memi del nostro indottrinamento»******. Piccola aggiunta personale: ho sempre trovato disgustose alcune letture di Dawkins come libertino che giustificherebbe l’immoralità sulla base dell’egoismo dei geni. Io sono spesso (fortemente) in disaccordo con le tesi di Dawkins (come dirò sotto), ma menzogne così spudorate sono veramente ridicole.

Il testo di Dawkins è veramente brillante. È scritto in modo molto elegante, estremamente ragionato, propone una tesi innovativa che getta una nuova luce sull’evoluzione della vita e sul comportamento. Lo leggo e rilego sempre con molto piacere, e non posso che consigliarne vivamente la lettura. D’altra parte, è anche un libro su cui sono fortemente in disaccordo a livello concettuale. Il motivo principale consiste nel fatto che Dawkins propone una forma di riduzionismo gene-centrico che, a mio parere, mal si accorda sulle scoperte fatte nel corso degli anni rispetto ai sistemi biologici. Sia chiaro, Dawkins per me è da ammirare per il “coraggio” e la lucidità di avere portato alle sue logiche conseguenze la teorizzazione della Sintesi Moderna, che poneva al centro gli studi della genetica di popolazioni. Ed è indubbiamente vero che quello dei geni è un livello di selezione fondamentale per lo sviluppo delle forme di vita. Ma è anche vero che i geni non sono tutto, e che gli organismi non consistono soltanto di veicoli per la loro diffusione. Oggi sappiamo che il rapporto tra i geni e i fenotipi passa attraverso processi di sviluppo che modificano in modo fondamentale l’espressione del nostro corredo genetico (proverò a portare un testo del genetista Lewontin su questo); sappiamo che molti comportamenti non hanno una base genetica diretta o facilmente definibile; sappiamo che le trasmissioni culturali e le esperienze di vita possono avere influenze complesse e molteplici sulla trasmissione e l’espressione delle informazioni genetiche.*******

Per quanto riguarda la memetica, riconosco a questa proposta un tentativo (e un relativo successo) di naturalizzazione della cultura attraverso il riferimento alle dinamiche biologiche. C’è qualcosa di vero nel fatto che la cultura può essere vista, almeno in certi casi, come una serie di informazioni discrete che “lottano” per la propria diffusione in mezzi di archiviazione e trasmissione diversi (tra cui i nostri cervelli “culturalizzati”). Ma al tempo stesso, l’approccio memetico non mi sembra far altro che definire un diverso livello di evoluzione e selezione indipendente e operante in parallelo (con un ritmo e in un ambiente diversi) da quello degli organismi e dei geni. In questo senso, il concetto di meme può passare dall’avere una funzione euristica al generare ambiguità e forzature concettuali. Il problema non è soltanto il fatto che l’evoluzione culturale possiede comunque caratteristiche molto diverse da quelle dell’evoluzione organica, aspetto che viene normalmente riconosciuto anche dai “memetisti”. La questione è piuttosto che le culture rimangono il prodotto dell’interazione tra gli esseri umani (i loro comportamenti) e le specifiche situazioni bio-sociali a cui essi si sono trovati ad adattarsi come individui e come gruppo. La cultura permessa dal linguaggio non ha soltanto trasformato un cervello/mente che l’ha ricevuta passivamente. Ciò è soltanto una parte dell’evoluzione che ha coinvolto la nostra specie: il resto riguarda il modo in cui i nostri memi hanno modificato l’ambiente – o meglio la nicchia – in cui Homo sapiens ha imparato ad abitare, e il modo in cui l’ambiente così costruito/modificato ha trasformato le pressioni selettive a cui i nostri corpi e i nostri comportamenti sono stati sottoposti. A mio parere il più grande errore in cui può incappare la memetica è quella di considerare la cultura come qualcosa di derivato dalla biologia e di analogo per caratteristiche, ma comunque dissociato da essa. Al contrario, la cultura è sì qualcosa di derivato dall’evoluzione biologica, corporea e agentiva della nostra specie, ma anche qualcosa che, modificando l’ambiente bio-sociale attorno a noi (e non soltanto i nostri cervelli), ha avuto effetti di ritorno sui nostri corpi, le nostre azioni e la nostra cultura successiva (proverò a portare un testo di Cavalli-Sforza su questo). Insomma, il rapporto tra biologia e cultura è molto più complesso di come ha ipotizzato Dawkins, e temo che il suo approccio abbia poco da dire su questo.

In conclusione, un testo fondamentale tanto per quello che dice tanto per quello che non dice. Un testo che presenta (a mio parere) parzialità e fraintendimenti. Ma anche uno dei testi che ho più a cuore e che ritengo meriti di essere letto con attenzione, ponderato e criticato, perché fonte di continua ispirazione.


NOTE PER GLI AVVENTUROSI
Spoiler:
*Diciamo che quello che ho letto de L’Illusione di Dio non mi fa impazzire, non lo ritengo particolarmente interessante né originale. Mi piacciono però quegli studi che affrontano le religioni come fenomeni naturali e cercano di indagare le ragioni evolutive e storiche di tali sistemi di credenze, sulla scia di Hume. In futuro dovrei portare un saggio a più mani su questo.
**Spesso anche in contrasto con diverse interpretazioni dell’evoluzione portate avanti da altri autori, come il già citato Stephen J. Gould. Il paleontologo è stato infatti uno dei più grandi avversari intellettuali di Dawkins, con il quale portò avanti una battaglia libresca incessante (dedicandosi nel mentre vicendevoli frecciate al vetriolo). Sarebbe troppo lungo spiegare i motivi di questo contrasto, che hanno profonde ragioni storiche interne allo sviluppo della disciplina, per cui mi limito a rimandare (se qualcuno potesse essere interessato) a un comodo libricino dedicato al tema da parte del filosofo Kim Sterelny, La sopravvivenza del più adatto. Dawkins contro Gould.
***Questa integrazione tra Darwin e Mendel fu definita, attraverso una celebre espressione del 1942 di Julian Huxley, Sintesi Moderna e fu un processo estremamente lungo e realizzatosi pienamente solo negli anni ‘50. Tuttavia, faremmo certamente torto agli scienziati che presero parte a tale progetto se riducessimo il loro lavoro ad una, pur importante, opera di sintesi tra due autori della tradizione scientifica. In realtà la SM coinvolse non solo i genetisti di laboratorio e quelli delle popolazioni, ma anche un insieme di altre discipline comprendenti la zoologia, tassonomia, la paleontologia, l’embriologia la botanica e altre ancora. Questo processo non si limitò a conciliare eredità mendeliana ed evoluzione darwiniana, ma costituì una vera e propria innovazione nel concepire i processi evolutivi come insieme, fornendo nuove chiavi di lettura per comprenderne i meccanismi alla base, confermando e potenziando alcune delle ipotesi darwiniane (discendenza con modificazione, selezione naturale, gradualismo filetico) ma superando al contempo alcuni dei suoi concetti e promuovendo una nuova, più completa, visione della vita.
**** Ovviamente i geni sono selezionati in virtù degli effetti e dei comportamenti che producono per i corpi che abitano, ma l’“interesse” dei geni sui corpi è valido sono finché il corpo non si riproduce. Ossia, la selezione naturale tenderebbe a favorire geni che corrispondono a comportamenti utili alla sopravvivenza degli individui e alla loro riproduzione. Tuttavia, un gene o un insieme di geni che avessero effetti utili in età giovanile, ma dannosi con l’avanzare degli anni sarebbero comunque selezionati dall’evoluzione, come ha mostrato ad esempio il biologo Peter Medawar. Questo è probabilmente uno dei motivi evoluzionistici alla base dell’emergenza di invecchiamento e aumento di malattie con l’avanzare dell’età.
***** Sembra stano, ma l’egoismo dei geni non è in contrasto con la presenza di sacrifici e comportamenti altruistici in natura, anzi. La teoria della Kin Selection (selezione parentale) ci dice che un comportamento di derivazione genetica che sacrifichi l’individuo per permettere la sopravvivenza o diffusione di un maggior numero di parenti (es. cure parentali) sarà favorito in quanto i promuoverebbe la diffusione di tali geni (presenti nei genitori/figli/fratelli). D’altra parte, anche la teoria dei giochi applicata alla biologia è utile a spiegare lo sviluppo di cooperazione tra conspecifici e comportamenti simbiotici, che diffondendosi in una popolazione tendono a isolare gli individui poco proni a tali comportamenti. Ricordiamo che queste soluzioni sono comunque compromessi evolutivi che possono essere aggirati con nuove strategie, quindi nell’evoluzione continueranno a rimanere e svilupparsi nuovi individualismi e nuovi metodi di controllo e regolazione sociale. Così come rimangono contrasti tra maschi e femmine (guerra dei sessi), tra genitori e figli, tra membri di una stessa prole, etc.
****** p. 215. Negli anni la prospettiva della memetica è stata sviluppata da autori come Dan Dennett e Susan Blackmore, ma attualmente non è di particolare interesse per la comunità scientifica, a differenza di altri approcci che studiano i rapporti tra studi culturali ed evoluzione biologica.
*******Come studiato ad esempio dalla moderna epigenetica e della plasticità fenotipica, che stanno modificando le classiche concezioni del rapporto tra DNA e organismo.
Prossima settimana porto una roba più tranquilla, o non arrivo a Carnevale :shy:
Ultima modifica di Inklings il 28/01/2023, 22:05, modificato 2 volte in totale.

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Re: I Saggi del Cuore: letture e idee che lasciano un segno

Messaggio da Hard Is Ono »

Non c'è per forza bisogno di tutta questa deferenza eh.

Non c'è bisogno di mettere in discussione la statura di scienziato per dire che certe concezioni, certa visione del mondo, certe idee di fondo di Dawkins sono delle sciocchezze. L'ipotesi riduzionistico-genetica di Dawkins è un vicolo cieco.

La stessa "raffinazione" successiva delle sue tesi, mi pare piuttosto un tentativo di aggiustare il tiro viste le critiche e visto il fatto che la sua concezione di fondo era intenibile.

Lewontin vale ancora più punti simpatia di Gould invece.

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Re: I Saggi del Cuore: letture e idee che lasciano un segno

Messaggio da Inklings »

Mah, più che deferenza, é rispetto per un pensatore e divulgatore che ha dato tanto a una disciplina a me cara, per quanto io sia in disaccordo con lui :-

E sarebbe un’esagerazione dire che le idee proposte ne Il gene egoista fossero sciocchezze. Per dire, l’idea che i geni siano “egoisti” e che costituiscano un livello di competizione e selezione fondamentale - non unico, questo no - nell’evoluzione (e in alcuni caso indifferente o in contrasto agli effetti negativi sull’individuo) è vera. Poi ci sono idee errate (in particolare quella del corpo-veicolo, per dirne una) ma che rappresentano conclusioni e concettualizzazioni che erano perfettamente logiche visti gli studi di Fisher, Williams, Hamilton, Trivers e altri giganti della disciplina che hanno sempre lodato questo testo così come il fenotipo esteso, per quanto gli studi successivi ne abbiano delineati i limiti (al di là che ci sono comunque campi di applicazione in cui la logica dawkinsiana ha retto l’urto e si è dimostrata utile). Anche perché andando nello specifico dell’opera, molti capitoli sono validissimi per comprendere le dinamiche evolutive in rapporto alle cure parentali, l’aggressività, i sessi, la cooperazione.

Che il gene-centrismo fosse un’impostazione “intenibile” è vero, ma lo si può dire dopo decenni di studio (e in particolare dopo lo Human Genome Project), mentre negli anni successivi alla genetica delle popolazioni e la scoperta del DNA quasi tutti nel settore erano convinti di aver trovato il sacro graal dell’evoluzione della vita (ricordando che Dawkins é etologo di formazione e l’impostazione genetica fu fondamentale in questo campo).

Per quanto riguarda la modifica e la raffinazione delle proprie idee a seguito delle critiche, ha prodotto le parti migliori che Dawkins ha lasciato alla biologia evoluzionistica (i capitoli delle edizioni successive di GE e il fenotipo esteso, appunto), magari fossero tutti così gli autori con cui non sono d’accordo :moltosorpreso:

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Re: I Saggi del Cuore: letture e idee che lasciano un segno

Messaggio da Inklings »

6/52

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Questa settimana porto una lettura carina e non molto impegnativa, un libro del giornalista americano Mark O’Connell su un tema a popolarità crescente negli ultimi anni: il Transumanesimo. Quest’ultima è una corrente di pensiero sviluppatasi più coerentemente a partire dagli ‘80 che argomenta in favore dell’utilizzo delle tecnologie emergenti di diverse discipline* (medicina, informatica, robotica, psicologia cognitiva, intelligenza artificiale) per rimuovere i limiti della condizione umana (malattie, invecchiamento e persino la morte), potenziando i nostri corpi e processi cognitivi.** Il libro è impostato come un viaggio da parte dell’autore per conoscere i maggiori esponenti delle varie correnti transumaniste, siano essi professori universitari, informatici di alto profilo, associazioni finanziate per progetti specifici, esponenti di partiti politici o gruppi di bio-hacker autonomi. È scritto in uno stile asciutto e abbastanza ironico, estremamente accessibile per un pubblico generalista, dal momento che lo stesso giornalista impara a conoscere le varie correnti e nozioni fondamentali nel corso del suo viaggio (in futuro porterò sicuramente anche Spillover di Quammen, di stile simile anche se con prospettive e contenuti molto diversi).

L’aspetto interessante di questo libro che lo diversifica da una pappardella sulle magnifiche sorti e progressive della specie umana consiste nella prospettiva apertamente critica del giornalista e dal suo focus sulla dimensione narrativa della futurologia transumana. Al di là della realizzabilità scientifica e socio-economica di questi fantomatici risultati futuri*** (su cui non mancano frecciate anche abbastanza argute), O’Connell legge lo sviluppo del transumanesimo nei termini di un nuovo grande racconto contemporaneo rivolto a quelle stesse domande che animano da sempre la nostra specie. Il transumanesimo rappresenterebbe quello stesso desiderio sotteso da sempre alle mitologie più antiche (pensiamo all’epopea di Gilgamesh), in cui l’uomo tenta di elevare la propria condizione e di vincere, infine, la propria mortalità. Ma se nelle antiche mitologie e nei vecchi racconti il sogno dell’immortalità è costantemente frustrato e lascia spazio all’accettazione della propria finitezza, le varie correnti del pensiero transumaniste riposano su una fede convinta nello sviluppo di tecnologie che realizzino tale aspirazione, al costo (pagato volentieri) di trasformare radicalmente gli uomini, i loro corpi e le loro esperienze.

I vari capitoli affrontano - in forma di intervista, racconto e riflessioni - i maggiori temi e (possibili) sviluppi futuri: l’upload della coscienza, ossia la trasmissione delle menti individuali su supporti artificiali; il bio-hacking, la trasformazione del corpo umano con protesi e chip che migliori le prestazioni e regolino processi interni; procedimenti medici che allunghino indefinitamente la vita degli individui bloccando malattie e invecchiamento; la singolarità tecnologica, lo sviluppo di intelligenze artificiali superiori che forniscano un supporto fondamentale e pervasivo ad ogni attività umana. Attraverso l’autore che condivide alcuni giorni ed esperienze con alcuni protagonisti del libro, veniamo trasportati dalla dimensione tecnico-scientifica di queste ricerche alle storie personali e ai motivi affettivi che li hanno condotti alle proprie scelte. Non che questo aspetto giustifichi tali posizioni, ma sicuramente aiuta a riflettere quale possa essere la posta in gioco di queste ricerche rispetto ai nostri valori e alle nostre esperienze sulle più grandi sfide e passaggi obbligati delle nostre vite.

Il giornalista mantiene sempre l’attenzione su tali temi, interrogandosi (e interrogando il lettore) su quegli aspetti dolorosi della nostra esistenza da cui il transumanesimo vuole liberare l'umanità, ma che al tempo stesso costituiscono il nocciolo fondamentale di quello che consideriamo essere la condizione umana e lo scheletro su cui si fondano tutti i nostri valori. Gli esponenti del transumanesimo qui interrogati si rendono perfettamente conto di ciò (almeno per la maggior parte) e sono coscientemente disposti ad attuare tale cambiamento, a trasformare l’umano in post-umano. O’Connell prende seriamente questa sfida, ma conclude che il post-umano sia qualcosa di dis-umano: per lui il gioco non vale la candela, perché in quelle esperienze dolorose a cui si rivolgono gli sforzi di questi ricercatori c’è qualcosa di estremamente prezioso che rende la vita umana meritevole di essere vissuta, nel bene e nel male.

Ottimo entry level per approcciarsi a queste prospettive, dove l'onesta parzialità dell'autore costituisce un bel valore aggiunto al racconto.

NOTE PER GLI AVVENTUROSI:
Spoiler:
*Le basi del transumanesimo in realtà sono molto più retrodatabili, dal momento che lo sviluppo delle tecnologie ha sempre comportato nella storia (e in particolare dalla Rivoluzione Industriale) aperture di prospettive entusiastiche sul futuro della nostra specie. Più nello specifico però, il transumanesimo si basa su una visione cognitivista della mente (evidente nel caso dell’uploading, che sottende una comprensione della coscienza come insieme di informazioni/dati) e sulla nascita dell’informatica, la cibernetica e dell’AI. In futuro penso di portare due piccoli classici fondamentali su queste visioni, uno di Turing e l’altro di Von Neumann.

**Una brevissima introduzione al nocciolo del pensiero transumanista è la nota Lettera a Madre Natura (1999) del filosofo Max More, che metto qui integralmente:

Dear Mother Nature:

Sorry to disturb you, but we humans—your offspring—come to you with some things to say. (Perhaps you could pass this on to Father, since we never seem to see him around.) We want to thank you for the many wonderful qualities you have bestowed on us with your slow but massive, distributed intelligence. You have raised us from simple self-replicating chemicals to trillion-celled mammals. You have given us free rein of the planet. You have given us a life span longer than that of almost any other animal. You have endowed us with a complex brain giving us the capacity for language, reason, foresight, curiosity, and creativity. You have given us the capacity for self-understanding as well as empathy for others.

Mother Nature, truly we are grateful for what you have made us. No doubt you did the best you could. However, with all due respect, we must say that you have in many ways done a poor job with the human constitution. You have made us vulnerable to disease and damage. You compel us to age and die—just as we’re beginning to attain wisdom. You were miserly in the extent to which you gave us awareness of our somatic, cognitive, and emotional processes. You held out on us by giving the sharpest senses to other animals. You made us functional only under narrow environmental conditions. You gave us limited memory, poor impulse control, and tribalistic, xenophobic urges. And, you forgot to give us the operating manual for ourselves!

What you have made us is glorious, yet deeply flawed. You seem to have lost interest in our further evolution some 100,000 years ago. Or perhaps you have been biding your time, waiting for us to take the next step ourselves. Either way, we have reached our childhood’s end.

We have decided that it is time to amend the human constitution.

We do not do this lightly, carelessly, or disrespectfully, but cautiously, intelligently, and in pursuit of excellence. We intend to make you proud of us. Over the coming decades we will pursue a series of changes to our own constitution, initiated with the tools of biotechnology guided by critical and creative thinking. In particular, we declare the following seven amendments to the human constitution:

Amendment No.1: We will no longer tolerate the tyranny of aging and death. Through genetic alterations, cellular manipulations, synthetic organs, and any necessary means, we will endow ourselves with enduring vitality and remove our expiration date. We will each decide for ourselves how long we shall live.

Amendment No.2: We will expand our perceptual range through biotechnological and computational means. We seek to exceed the perceptual abilities of any other creature and to devise novel senses to expand our appreciation and understanding of the world around us.

Amendment No.3: We will improve on our neural organization and capacity, expanding our working memory, and enhancing our intelligence.

Amendment No.4: We will supplement the neocortex with a “metabrain”. This distributed network of sensors, information processors, and intelligence will increase our degree of self-awareness and allow us to modulate our emotions.

Amendment No. 5: We will no longer be slaves to our genes. We will take charge over our genetic programming and achieve mastery over our biological, and neurological processes. We will fix all individual and species defects left over from evolution by natural selection. Not content with that, we will seek complete choice of our bodily form and function, refining and augmenting our physical and intellectual abilities beyond those of any human in history.

Amendment No.6: We will cautiously yet boldly reshape our motivational patterns and emotional responses in ways we, as individuals, deem healthy. We will seek to improve upon typical human emotional excesses, bringing about refined emotions. We will strengthen ourselves so we can let go of unhealthy needs for dogmatic certainty, removing emotional barriers to rational self-correction.

Amendment No.7: We recognize your genius in using carbon-based compounds to develop us. Yet we will not limit our physical, intellectual, or emotional capacities by remaining purely biological organisms. While we pursue mastery of our own biochemistry, we will increasingly integrate our advancing technologies into our selves.

These amendments to our constitution will move us from a human to an transhuman condition as individuals. We believe that individual transhumanizing will also allow us to form relationships, cultures, and polities of unprecedented innovation, richness, freedom, and responsibility.

We reserve the right to make further amendments collectively and individually. Rather than seeking a state of final perfection, we will continue to pursue new forms of excellence according to our own values, and as technology allows.

Your ambitious human offspring.


:boh:

***Per un attimo avevo pensato di portare, tra i vari saggi, Come creare una mente di Ray Kurzweil. Ray è un informatico che lavora come director of engineers di Google ed è stato una delle menti dietro lo sviluppo dei sistemi di riconoscimento (ottico, ma non solo) delle AI. Tra le varie cose, è un futurologo convinto dello sviluppo esponenziale della tecnologia, che porterebbe nel breve periodo a intelligenze artificiali superintelligenti e pienamente coscienti (non è che dia una grande definizione di quest’ultima roba, ma vabbé). Il libro è interessante quando parla dei processi di riconoscimento e gli studi sulle simulazioni dei processi cognitivi, ma abbastanza terribile sul resto: penso riassuma bene tutto quello che ritengo sbagliato nel modo di intendere la mente, il cervello (su cui scrive delle belle castronate, ma vabbé) e l’utilizzo della tecnologia. Rimane un esempio utile di cosa sia intenda per transumanesimo uno dei suoi massimi propositori (ci sarebbero altri testi noti, ma che ho ancora in libreria, tipo Bostrom e Tegmark).
Prossima settimana sarò probabilmente discostante perché devo preparare degli esami, ma qualcosa penso di tirarlo fuori comunque (o magari la settimana dopo ne metto due più piccoli)

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Re: I Saggi del Cuore: letture e idee che lasciano un segno

Messaggio da Inklings »

7/52

Il testo di questa settimana è qualcosa a cui sono davvero molto legato, in quanto oggetto della mia tesi triennale. E' un testo a carattere principalmente filosofico e la presentazione che ne faccio è lunghetta, quindi vedete voi se dargli una letta :)

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George Herbert Mead è considerato uno dei padri fondatori della psicologia sociale, agli inizi del Novecento. Da un punto di vista filosofico, è stato un esponente di spicco del pragmatismo americano, erede della psicologia di William James, della filosofia sociale di Josiah Royce e dall'approccio semiotico di Charles Peirce. Ha lavorato per anni come professore alla Chicago University insieme al collega e amico John Dewey, dove ebbe modo di studiare in modo approfondito il comportamento e lo sviluppo infantile. Considerato un professore eccellente, alla sua morte lasciò moltissimi scritti sui temi più disparati che vennero raccolti in pubblicazioni dai suoi allievi (tra cui Charles Morris, fondatore della biosemiotica). Per questo motivo i suoi scritti non sono propriamente di lettura scorrevole, consistendo per lo più in appunti, trascrizioni di lezioni, etc. Sono però estremamente interessanti e pregni di intuizioni innovative sulla natura del linguaggio, l'ontogenesi della coscienza umana, lo sviluppo dell'identità.*

I tre termini presenti nel titolo sono, per Mead, classi di fenomeni strettamente intrecciati, che diventano comprensibili sono quando trattati contemporaneamente nelle loro dipendenze reciproche. In sintesi, questo testo propone un’interessante teoria per l’emergenza del sé individuale a partire dalle interazioni comunicative dei contesti sociali, ribaltando una prospettiva comune della filosofia moderna che vuole i contesti sociali come forme aggreggative di individualità già formate (le famose visioni contrattualiste degli stati). Quella di Mead é una teoria del sé che incontra le visioni della teoria evoluzionista, la psicologia sociale e la semiotica.

Innanzitutto, il sé (self) è considerato come una funzione che emerge all’interno del processo evolutivo e si identifica col comportamento riflessivo. Notare la distanza che separa questa definizione dall’idea che l’autocoscienza sia una soggettività contrapposta ad un’oggettività esterna, com’era nel pensiero cartesiano.** Per Mead il sé è «al contempo soggetto e oggetto» (p. 194): si costituisce come una relazione emergente della natura, relazione nella quale gli organismi non si limitano semplicemente a rispondere agli stimoli provenienti dal mondo-ambiente e dagli altri organismi, ma riflettono sulla propria condotta scegliendo tra alternative e facendo di sé l’oggetto delle proprie scelte.

In questo senso, il sé ha una natura e un’origine duplici: da una parte, esso è il frutto di un’evoluzione biologica, il culmine di un processo di adattamento in cui l’organismo arriva a concepirsi al contempo come oggetto e parte del mondo-ambiente e soggetto libero nelle sue risposte ad esso; dall’altra, esso è oggetto per altri individui e solo assumendo la posizione che questi hanno nei suoi confronti può rendersi oggetto a se stesso nello stesso modo in cui gli altri sono oggetti per lui. Dunque, il sé è un fenomeno bio-sociale. La condotta, infatti, non si riduce solamente all’espressione di una dinamica biologica, ma è sempre inserita e rivolta a una dimensione collettiva nel quale i suoi significati trovano le proprie condizioni di manifestazione e validità. Nel comportamento, il mondo e i suoi oggetti assumono significato e valore in vista dei fini degli organismi e delle risposte che essi ricevono. Ma il mondo e gli oggetti sono sempre condivisi con altri viventi, ed ognuno di essi vive e si forma come individuo in una rete di relazione con gli altri e con i propri simili. Le azioni, i gesti, il linguaggio trovano la propria origine e la conferma del proprio valore nelle risposte che gli altri ci danno. Il vagito del neonato trova il suo senso nell’accorrere della madre, il pugno chiuso trova il proprio nella reazione di paura o di sfida del rivale. E così ogni individuo, e ognuno dei comportamenti che egli assume, si trova immerso in una comunità d’appartenenza che precede e contribuisce a fondare l’identità del singolo e dei suoi atti, i quali vengono appresi, respinti, modificati e inventati in un riferimento costante ed ineludibile ad essa, che ne costituisce il punto di partenza e l’orizzonte di senso condiviso.

Diventare un sé significa poter uscire dalla propria prospettiva per guardarsi “dall’esterno”; in altri termini, è la possibilità di assumere continuamente il ruolo dell’altro – di guardarmi come l’altro mi guarda – a permettere la formazione di tale capacità. La pratica comunicativa, costruita sui gesti vocali del linguaggio umano, costituisce lo strumento fondamentale di questa riflessione, o “rimbalzo”, dall’altro al sé.*** Il gesto vocale, identico per il parlante e l’ascoltatore, trova il proprio significato nella risposta dell’uomo che lo ascolta. Questa dinamica, attraverso continue ripetizioni ed associazioni, permette al soggetto che parla di fare sua quella risposta e, successivamente, di usarla come finalità del suo gesto.**** L’assunzione del ruolo altrui genera un “rimbalzo” in cui l’individuo, imparando a prendersi carico dei punti di vista delle altre forme partecipanti agli stessi atti sociali, assume col tempo un punto di vista sociale, normativo e “oggettivo” su sé stesso. Nell’uomo questo processo è continuo e costituivo per la crescita e formazione di ogni singolo individuo della specie, consentendo sia la piena assunzione del linguaggio sia di un punto di vista riflesso e permanente (ma in continuo cambiamento) in una narrazione coerente legata dalla memoria. A questo punto, il corpo umano acquisisce un punto di vista su di sé come autentico protagonista delle proprie azioni e relazioni, è diventato auto-bio-grafico.

Quali sono le fasi di questo processo a livello individuale? Mead notò che il gioco è una delle primissime forme di interazione sociale in cui i bambini entrano in contatto con il mondo circostante e iniziano a sviluppare una regolazione comportamentale riflessa. Con la crescita del bambino il gioco si evolve diventando più complesso, segno che le modalità con cui egli interagisce con gli altri e riflette acquistano una maggior completezza e profondità. Mead definisce la prima fase dei giochi infantili come play, che va inteso come il gioco puro e semplice, un gioco senza particolari complicazioni o regole. Si potrebbe definire semplicemente il «giocare a qualcosa» (p. 209) . In questa fase il gioco si traduce in un’attività di continua personificazione dell’altro: i bambini giocano a fare la mamma, il papà, il fruttivendolo, il pirata, l’astronauta, etc. cioè assumono identità e ruoli sociali sempre diversi, scivolando da una “maschera” all’altra e comportandosi come vedono agire i personaggi assunti. La particolarità di questa fase è che i bambini non sembrano possedere ancora un sé personale “completo”; per il momento non fanno che passare da un sé ad un altro, senza esserlo loro stessi, è non raro anzi che essi facciano esperienza del doppio, cioè che parlino con sé stessi concependosi ad un tempo come soggetti e come l’altro che impersonificano, o addirittura che esteriorizzino tale conversazione nella figura di un amico immaginario . Attraverso questi procedimenti essi incominciano il percorso di costruzione della loro personalità.

Dalla fase del play si passa a quella del game, che si può tradurre con l’espressione “gioco organizzato”. Questo stadio è caratterizzato dal fatto che, contrariamente al play, dove il bambino assume un ruolo alla volta, qui egli «deve essere pronto ad assumere la parte di tutti gli altri partecipanti a quel “gioco”, e che questi ruoli differenti devono trovarsi in un rapporto ben determinato tra loro» (p. 213). L’esempio preferito di game cui Mead ricorre è il baseball: ogni giocatore, per prendere parte al gioco, deve sapere cosa comporti l’acquisizione di ogni ruolo in campo e cosa deve fare ogni altro giocatore per portare avanti il ruolo. Non solo, egli deve anche saper tenere distinti i ruoli e capire quando deve fare qualcosa e qualcos’altro – ad esempio quando deve fare il lanciatore e quando il battitore – e deve infine capire e anticipare quali risposte gli altri giocatori avranno nei suoi confronti in base alle sue azioni e al suo ruolo. Per semplificare, nel game esistono delle regole che dettano il comportamento possibile dei giocatori e i limiti della loro azione. Si tratta indubbiamente di un sistema molto più complesso del play, in cui il bambino è costretto ad un’attività di riflessione e interazione più matura. L’importanza del percorso che va dal play al game consiste nel fatto che esso «rappresenta il momento di passaggio dallo stadio in cui si assumono le funzioni degli altri a quello in cui si organizza la divisione delle funzioni, ciò che è essenziale per giungere alla coscienza del sé nel pieno senso del termine» (p. 212).

Nel game è presente un’unità assolutamente inesistente nel play. In quest’ultimo, il bambino-giocatore scivola da un sé all’altro senza alcuna organizzazione e stabilità; egli può essere chiunque senza essere nessuno, assume ogni ruolo ma solo uno alla volta, in base ai suoi stimoli e preferenze. Nel game avviene qualcosa di più: i ruoli non sono solo assunti, ma anche ordinati secondo determinate regole e modalità indispensabili per la riuscita del gioco e fornite dal gioco stesso. Questo significa che ciò che viene assunto, nel game, non è un ruolo, ma un insieme o una totalità di ruoli diversi rappresentati secondo una determinata organizzazione. Gli altri del play diventato l’“altro” nel game. Perché un individuo diventi un sé non è allora sufficiente saper assumere la prospettiva dell’altro, in quanto un’attività di questo tipo non è in grado di fornire, da sola, l’unità necessaria allo stabilirsi di un’identità personale di riferimento. Nel play i sé si susseguono disordinatamente, vengono presi e abbandonati in modo arbitrario e non possiamo parlare ancora di un soggetto meta-riflessivo. Nel game, invece, inizia a prefigurarsi la situazione che si verifica all’interno della società umana vera e propria, in cui gli individui sono in grado non solo di mettersi nel punto di vista dei singoli interlocutori, ma anche in quello della loro comunità o gruppo di appartenenza.

Questo punto di vista particolare è ciò a cui Mead si riferisce quando parla di “altro generalizzato” (generalized other). Nel mondo sociale umano le prospettive dei singoli individui vanno a formare una rete di relazioni e atti sociali, stratificandosi in un insieme di risposte e atteggiamenti comuni a cui gli individui stessi, e quelli che nasceranno o verranno a trovarsi in questa rete, dovranno fare i conti come la prospettiva di riferimento (che si esprime esplicitamente nella formazione di istituzioni). In questo senso non sono solo le comunità come paesi, stati, popoli, nazioni, etc. ad essere un “altro generalizzato”; qualsiasi gruppo sociale si identifica con tale espressione, siano essi di estensione ridotta (scuola, famiglia, country club, etc.) o ampia (il mondo scientifico, l’umanità, etc.). L’“altro generalizzato”, nel momento in cui viene assunto e interiorizzato dall’individuo, gli fornisce quell’organizzazione e unità che sono essenziali alla formazione del suo sé.

Un individuo non assume la posizione di un unico “altro generalizzato”, in quanto fa parte di una molteplicità di reti sociali diverse: ogni uomo è parte di una famiglia, una società, un popolo, una comunità di parlanti, un contesto lavorativo, etc., ed assume ciascuno di questi punti di vista condivisi, il che implica che ogni individuo sia composto da una molteplicità di sé differenti, corrispondenti alla molteplicità di atteggiamenti che egli tiene nei confronti propri e dei membri dei gruppi di cui fa parte. Il mio sé quando sono a scuola è diverso dal mio sé quando sono al lavoro o in famiglia. Sono diversi i miei atteggiamenti e il mio modo di concepire me stesso, perché è diversa la prospettiva su cui essi sono regolati. Per riassumere, se nella fase del play l’individuo impara a passare da un sé all’altro, nel game egli impara a regolamentare questo passaggio e dargli un’organizzazione in base al gruppo sociale in cui si trova ad essere. Questa capacità di ordinamento dei sé parziali è il sé personale vero e proprio, il sé organizzato che si identifica con l’attività del soggetto pienamente autocosciente. Riassumendo, il sé umano dotato di una auto-bio-grafia si forma e viene definito da ciò che altro da sé, ossia dai rapporti che esso instaura con il proprio ambiente e con la comunità sociale cui appartiene. L’altro – cioè l’insieme degli altri – viene prima del sé individuale, gli dà una genesi e una struttura. Il sé non può prescindere dagli altri, non può fare a meno di un orizzonte sociale da cui è definito e organizzato.*****

La modalità attraverso cui il sé sorge a partire dall’interiorizzazione della comunità non si identifica con un rapporto di determinazione causale, ma di emergenza. Ogni sé è “nuovo” perché pur provenendo da un orizzonte comune ad una molteplicità di individui introduce una prospettiva altra sull’insieme di atteggiamenti sedimentati nell’“altro generalizzato”; e ciò può avvenire proprio perché l’“altro generalizzato” è presente solo all’interno di un’azione di interiorizzazione da parte di un individuo facente parte della comunità. La voce della comunità parla attraverso ogni sé, ma in ciascuno di essi essa parla diversamente. In questo modo, il sé non è solamente il riflesso passivo della comunità, ma comporta altresì l’attività prospettica di riflessione che va a formare l’“altro generalizzato” nel momento stesso in cui lo interiorizza. L'identità indica il doppio formato dal riflesso e dal riflettente, dall’oggetto e dal soggetto: il sé può essere oggetto a sé stesso solo in quanto è al tempo stesso il soggetto di questa oggettivazione, può essere narrato solo se al tempo stesso è narrante.

Nascendo nel “corpo condiviso” delle relazioni sociali umane, ognuno di noi impara pian piano ad assumere le prospettive già formate che gli altri hanno su di noi, così come le capacità necessarie a regolare la nostra vita nel gruppo. "Sé" è il nome che Mead ha deciso di dare l’incorporazione e l’organizzazione interiore di queste prospettive e capacità all’interno di una narrazione individuale coerente, ciascuna unica e irripetibile sulla base delle proprie esperienze e dello specifico corpo di cui siamo dotati.

NOTE PER GLI AVVENTUROSI:
Spoiler:
*Il mio incontro con gli scritti di Mead è avvenuto per via traverse. Rimasti folgorato da alcune idee esposte in un saggio di Carlo Sini presente nei materiali per un esame (Spinoza o l'Archivio del sapere), che trattavano il rapporto tra individuo e alterità in un modo che non avevo mai letto da nessuna altra parte e che mi affascinava. Andai a colloquio con la professoressa del corso per saperne di più, e lì scoprì che Sini li aveva derivati e sviluppati dallo studio del pragmatismo americano, e in particolare dall'opera di Mead. Divorai i suoi scritti e decisi che sarebbe diventato la mia tesi. Da lì sarei passato allo studio di tutto il pragmatismo americano, del suo rapporto con la teoria dell'evoluzione e alle sue declinazioni contemporanee.
**Mead è in questo fedele alla tradizione pragmatista americana ed alla sua feroce critica al cartesianesimo in cui l’autocoscienza si identifica come l’“io penso”, un’evidenza prima colta attraverso un atto di intuizione immediata, e come sostanza pensante contrapposta ad una sostanza estesa (il mondo). Già Peirce aveva messo in crisi questa concezione nei suoi scritti, dimostrando come la coscienza e il sé siano in realtà il frutto di molteplici inferenze e di un continuo processo semiotico (quindi qualcosa di derivato e non primario rispetto alle esperienze e alle operazioni degli individui).
***Mead affronta il problema adottando anche una prospettiva genealogica. Il contesto sociale primario consistette in quello che Mead aveva chiamato “conversazione di gesti”, il botta-e-risposta che intercorre tra animali interagenti in pratiche sociali: l’azione del membro di un gruppo diventa stimolo per la risposta di un altro individuo, mentre la totalità di questi gesti ripetuti e associati nel tempo va a formare un atto sociale. Mead concepiva la dimensione del significato non come uno stato di coscienza o un insieme di relazioni che esistono nelle menti individuali indipendentemente dalla situazione esperita dagli organismi, ma come il rapporto triadico tra il gesto compiuto da una forma di vita, la risposta che suscita in un altro organismo e la risultante dell’atto sociale di cui il gesto è una fase iniziale. Il significato, possiamo dire, non è il fondamento da cui si origina il gesto, ma la risposta che il gesto provoca in un altro organismo . A partire da tale contesto possono svilupparsi sia forme comunicative nuove tra i partecipanti agli atti sociali sia, contemporaneamente, individui con capacità emergenti, in grado di relazionarsi ai gesti altrui e propri non soltanto come stimoli immediati, ma manipolandoli, trattenendoli con l’attenzione e la memoria, associandoli in modo creativo.
****Possiamo vedere questo processo, per esempio, nelle primissime dinamiche relazionali del neonato con la sua prima comunità, la famiglia. Quando il bambino inizia a piangere non lo fa perché sa di aver fame o dolore, né sa cosa essi siano; semplicemente li prova, e come reazione piange. Tuttavia, a questo vagito rispondono i suoi genitori, che lo accudiscono, lo coccolano, gli danno da mangiare. Con il ripetersi di questa situazione, il bambino impara il significato del suo pianto. Il suo pianto “significa” che ha fame, dolore, etc. Il bambino impara ad associarlo all’accorrere dei genitori e al soddisfacimento di quei bisogni primari, e impara quindi ad usarlo per far sì che ciò avvenga. Attraverso questa serie di aggiustamenti sociali – nei quali il bambino inizia pian piano a mettersi nei panni dei genitori e a “guadarsi” dalla loro prospettiva – il pianto acquista un significato e il bambino comincia a comprendersi come soggetto in grado di aver fame, dolore, desideri, etc. Il gesto è diventato simbolo, evocando in entrambi i partecipanti all’atto la medesima risposta.
*****È un concetto che richiama Sini quando afferma: «nella vita domina l’Altro» . L’“Altro” cui Sini fa riferimento è la totalità delle pratiche, degli atteggiamenti, delle risposte della comunità umana in cui sono inserito; esso mi “domina” perché non lo decido né lo scelgo ma si impone su di me come sfondo a cui la mia azione, il mio linguaggio e il mio pensiero non possono che fare riferimento e da cui ricevono il proprio significato. Il sé che ciascuno di noi si trova ad essere non decide quando e dove nascere, non decide quali saranno gli incontri particolari (gli altri all’interno dell’“Altro”) che andranno a costituirlo, la lingua che parlerà, la cultura che gli verrà insegnata, etc. In questo senso ogni sé è alla deriva dell’“Altro”, nella sua dipendenza originaria. O addirittura, ogni sé è un’espressione particolare e prospettica dell’“Altro” da cui ha avuto origine.

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Re: I Saggi del Cuore: letture e idee che lasciano un segno

Messaggio da Inklings »

Una settimana di merda che sembra non finire mai, ma non mollo.

8/52.
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Michael Corballis é stato uno psicologo e neuroscienziato neozelandese che si è specializzato nella lateralizzazione cerebrale (il fatto che alcune aree funzionali siano specifiche di un unico emisfero cerebrale) e nello studio del linguaggio umano. Quel che propongo qui è un libro che ha fatto abbastanza parlare di sé agli inizi del 2000. In realtà la tesi proposta non è così innovativa nella storia pensiero, essendo stata avanzata sin dai tempi dei filosofi medievali e poi ancora da alcuni filosofi moderni (in particolar modo nell'Illuminismo), ma Corballis ha avuto il merito di aver raccolto evidenze scientifiche da varie discipline e di averle sviluppate con un'argomentazione coerente (e parzialmente convincente).

In sintesi, l'ipotesi di Corballis è che i linguaggio vocale umano sia derivato da forme proto-linguistiche di tipo gestuale: le prime forme di comunicazione dei nostri antenati del genere Homo sarebbero state "linguaggi dei segni" (ma chiaramente diverse da quelle usate oggi dai sordomuti, che le hanno derivate dalle lingue parlate). Difatti è possibile che nei primi Homo dovessero essere presenti dei modi iconici e mimici per coordinare le complesse operazioni diadiche di caccia*, ma in realtà possiamo trovare un ampio repertorio gestuale ancora più addietro, nelle pratiche sociali delle scimmie antropomorfe. Qui i gesti, data la mancanza di raffinate capacità ricorsive in questi animali, costituiscono strumenti per manipolare gli altri membri del gruppo piuttosto che comunicare con loro**. Tuttavia, la loro presenza, così come il fatto che sia stato possibile insegnare parzialmente un linguaggio dei segni ad alcuni esemplari vissuti a stretto contatto con gli umani (come il bonobo Kanzi o il gorilla Koko), potrebbe suggerire che la gestualità manuale abbia costituito un retroterra fondamentale per l’emergere del nostro linguaggio.

Corballis adotta una metodologia evoluzionistica e nota come le specie del genere Homo abbiano sviluppato capacità manuali complesse ben prima di possedere i tratti laringei che consentono ai sapiens di modulare i suoni che formano le nostre parole. L’evoluzione della mano, liberata dall’impedimento dell’appoggio, avvantaggiò i nostri antenati permettendo loro di maturare diversi tipi di prensione, di portare cibo alla bocca e di manipolare o addirittura lanciare oggetti come le pietre, capacità estremamente utile nella caccia***. È possibile che il complesso controllo della mano richiesto per queste attività sia stato riutilizzato nell'evoluzione in funzioni comunicative. I primi gesti manuali forse sarebbero stati indicali o mimici, movimenti iconici e immediatamente interpretabili dagli altri membri del gruppo (con una pressione sociale selettiva che avrebbe sfavorito gli individui incapaci di comprenderli), ma è possibile che con il tempo queste indicazioni abbiano finito per fornire il sostrato di un linguaggio gestuale comune. Ma allora perché i nostri antenati sapiens sarebbero passati alla comunicazione vocale? E come fu possibile tale passaggio?

L’idea di Corballis è che, col tempo, i gesti manuali si siano accompagnati ad una serie di movimenti espressivi della bocca ed emissioni vocali quali sbuffi, schiocchi di labbri, grugniti e simili. All’inizio essi sarebbero stati semplici associazioni spontanee, forse dovute allo sforzo dei movimenti per comunicare (un po’ come le esclamazioni dei tennisti), ma in seguito i nostri antenati avrebbero imparato a controllare anche queste proto-vocalizzazioni, utilizzandole volontariamente insieme alle mani per ampliare il loro “vocabolario” . In seguito, nei sapiens, si sarebbe sviluppata sempre di più la capacità di dissociare le emissioni vocali dai gesti manuali, con estremi vantaggi sia in termini comunicativi (possibilità di parlare al buio, comunicazione uno a molti, etc.) sia in termini strumentali, giacché ora le mani risultavano sollevate dall’impegno di comunicare e potevano concentrarsi sulla manipolazione: gli individui umani potevano ora parlare e svolgere un’altra attività nello stesso tempo, un enorme vantaggio in termini di cooperazione e coordinazione. Il linguaggio vocale non sarebbe dovuto allora ad un adattamento lineare verso la modulazione delle parole, quanto una serie di riutilizzi opportunistici (in biologia sia usa l'espressione exaptation), l’ultimo dei quali sarebbe consistito nell’applicare la struttura sintattica e semantica già utilizzata per i gesti manuali alle capacità di vocalizzazioni già presenti da tempo antichissimo nel nostro retaggio biologico (complice una pressione selettiva del tratto laringeo).

L'ipotesi è abbastanza interessante e ha il merito di raccogliere dati e riflessioni da varie discipline (biologia evoluzionistica, linguistica, neuroscienze, primatologia) e tentare di integrarle in modo coerente. E' anche coraggioso, perché si distacca da alcuni approcci molto in voga sul linguaggio in ambito scientifico, come quello della Grammatica generativa di Noam Chomsky (che ha avuto grossi meriti ma a onor del vero è sempre stata piuttosto debole sul problema dell'origine e della storia evolutiva del linguaggio, giusto negli ultimi libri ha deciso di occuparsene), ma anche da altri approcci evoluzionistici che vedono lo sviluppo del linguaggio in modo decisamente più lineare (cioè più adattazionismo e meno riutilizzo contingente di strutture originatesi per scopi diversi). Alcune parti sono più deboli, ad esempio quando si avventura in ipotesi sul ruolo del lanciare nell'evoluzione linguistica; altre sono delle "deviazioni" ma abbastanza carine e decisamente informative (linguaggi pidgin, storia dell'ipotesi gestuale, bipedismo e lateralizzazione cerebrale). Il libro è molto scorrevole e ben scritto e non risente molto del tempo trascorso (il ché è notevole, 20 anni sono tanti in questi ambiti). Lo consiglio sicuramente a chiunque sia interessato al mistero della parola, ma anche a chi voglia una panoramica non troppo impegnativa sul passato evolutivo della nostra specie e di quello delle nostre cugine più o meno parlanti.

Piccolo detour simpatico ma un po' complesso sugli altri studi di Corballis:
Spoiler:
Corballis ritiene inoltre che l'origine gestuale del linguaggio sia anche alla base della curiosa lateralizzazione sinistra del cervello umano. Mentre la maggior parte delle aree cerebrali deputate all’elaborazione sensoriale negli animali si ripete in modo bilaterale nei due emisferi (poiché possono esserci stimoli fondamentali per l’animale con uguale probabilità nel suo campo percettivo destro quanto in quello sinistro), le funzioni che non hanno un immediato riferimento percettivo sono solite mostrare un’asimmetria verso uno dei due emisferi, probabilmente dovuta a vantaggi in termini di costi e trasmissione di informazioni. Nel caso dei sapiens, l’emisfero sinistro mostra delle aree funzionali non presenti in quello destro, soprattutto in corrispondenza del lobo frontale, tradizionalmente legato a compiti di pianificazione, ragionamento e controllo motorio volontario. Mentre l’ampliamento della corteccia precedente a Homo sapiens seguiva una simmetria emisferica, nella nostra specie si verificò un evidente incremento di volume in corrispondenza del lobo frontale e prefrontale sinistro.**** Il punto importante è che una delle aree lateralizzate unica della nostra specie è proprio l’area di Broca nella zona prefrontale, molto nota fin dagli albori degli studi neuroanatomici moderni e strettamente connessa alla capacità di parlare. Secondo Corballis, quest’area si sarebbe sviluppata in modo lateralizzato in virtù di un’asimmetria ancora più primordiale della nostra specie, relativa alle aree della corteccia cingolata che permette l’emissione di suoni. La funzione dell’area di Broca non è quella di emettere suoni, ma quella di coordinare la struttura sintattica e semantica dei nostri gesti: questo spiegherebbe perché in essa possiamo trovare una mappatura di movimenti relativi alle mani oltre che ai muscoli della bocca. Insomma: a seguito del riutilizzo evolutivo delle aree vocali localizzate a sinistra nel nostro cervello, le zone cerebrali antenate dell’area di Broca si sarebbero lateralizzate per sfruttare meglio le capacità vocali, mantenendo tuttavia il “palinsesto” da cui erano partite (infatti vengono utilizzate per comunicare con il linguaggio dei segni dai sordomuti).
NOTE PER GLI AVVENTUROSI:
Spoiler:
*Una tesi simile è stata avanzata anche da Michael Tomasello (di cui porterò un testo), anche se lui non definisce questa coordinazione come linguistica in senso proprio, in quanto mancante di una convenzionalizzazione che ritiene propria invece delle forme linguistiche.
** Il primatologo Richard Byrne tende a usare l'espressione "intelligenza machiavellica" per descrivere il comportamento degli scimpanzè, ma forse approfondirò parlando del testo di Tomasello.
*** Un classico su questo tema è il bellissimo (ma datato) Il gesto e la parola del paleoantropologo Andrè Leroi-Gourhan. Un testo denso di tante intuizioni sullo sviluppo cognitivo della specie umana, molto particolare per l'accento posto sul ruolo giocato dalla posizione eretta e gli "effetti di ritorno" che questa avrebbe avuto sulle mani e, conseguentemente, la bocca e il cranio: La storia dell'umanità è iniziata con i piedi. La seconda parte è una bellissima riflessione sull'arte, la storia dei sistemi di memoria, il concetto di ritmo e molto altro. Non lo metto nella lista perché per parlarne bene dovrei rileggerlo e purtroppo non ne avrei il tempo, ma lo consiglio comunque caldamente.
**** Come studiato dal neurologo Michael Gazzaniga (quanti Michael scienziati :boh: ), le nostre spiccate capacità di ragionamento, decisione e riflessione sono intimamente legate anche allo sviluppo di questa asimmetria, tanto che egli era solito definire l’emisfero sinistro come l’“interprete” delle nostre esperienze mentali, l’area che “razionalizza” le informazioni provenienti dal resto del cervello (anche dalla parte destra). C'è un bel libro recente suo che penso di portare.

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